Inquadramento dell’algodistrofia e ruolo del neridronato nel trattamento

Chiara Ratti
Clinica Ortopedica Traumatologica, ASUGI, Trieste

Anno: 2022
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Descrizione

 

Che cos’è l’algodistrofia?

L’algodistrofia è una sindrome clinica caratterizzata da molteplici sintomi, in particolare da dolore loco regionale resistente alla terapia antalgica. Qualora si individui una causa traumatica come esordio, il dolore è sproporzionato nell’intensità e nella durata rispetto al trauma originario. Nonostante il dolore sia un sintomo costante, la restante manifestazione clinica è molto variabile, tanto che ancora oggi la diagnosi non è sempre facile e tempestiva. Inoltre, sempre a causa di questa variabilità di espressione, in passato si è generata confusione, sia per quanto concerne la definizione che per la descrizione dei presunti meccanismi eziopatogenetici e di conseguenza per le proposte di possibile trattamento.


 

L’algodistrofia è una malattia individuata solo di recente?

Nella storia, il primo caso di algodistrofia sembra essere stato descritto in Francia nel 1600 dal medico di corte Ambroise Paré: egli raccontò che il re Carlo IX aveva sviluppato una sindrome dolorosa cronica dopo un salasso, pratica medica abbastanza diffusa a quei tempi. Tale sindrome dolorosa era localizzata all’arto superiore e si era nel tempo autorisolta, nonostante molti medici dell’epoca avessero proposto l’amputazione dell’arto del Sovrano. Benché Parè sia ricordato per aver introdotto la legatura dei vasi nelle amputazioni degli arti e fosse in questa chirurgia considerato un grande esperto, in questo caso non propose l’intervento e la sua scelta si dimostrò corretta 1.

Dobbiamo arrivare all’800 per avere le prime descrizioni di quadri di algodistrofia. In Spagna, durante l’assedio di Badajoz del 1812, il dottor Denmark, chirurgo britannico, descrisse in un soldato ferito da un proiettile a livello sovracondilico lo sviluppo di una sindrome dolorosa all’arto superiore, probabilmente dovuta a una lesione nervosa. Il corredo sintomatologico aveva caratteristiche che non erano spiegabili con la semplice lesione nervosa.

Sempre nell’800, durante la guerra civile americana, Silas Mitchell incominciò a descrivere nei soldati una serie di sindromi caratterizzate da dolore secondario da ferite d’arma da fuoco 2. Queste sindromi dolorose erano caratterizzate da un dolore di tipo urente che tendeva a cronicizzare, con una distribuzione non spiegabile dalla lesione di un singolo nervo ed erano associate a disturbi di tipo distrofico, sia cutaneo che muscoloscheletrico.

Dobbiamo arrivare all’inizio del ’900 perché, grazie anche all’utilizzo delle immagini radiografiche, Sudeck, in una sua classificazione di forme distrofiche scheletriche, possa parlare di atrofia riflessa acuta o, come meglio da noi conosciuta, atrofia di Sudeck, termine coniato da un suo allievo per celebrare il maestro. Sudeck aveva osservato che la maggior parte dei casi andava incontro a una risoluzione spontanea del quadro senza esiti permanenti. Ciononostante lo stesso Sudek riportava che in alcuni casi il quadro persisteva nel lungo tempo, dando luogo a esiti invalidanti permanenti 3.

Nello stesso periodo si iniziò a indagare quali potessero essere le cause di questa patologia. All’inizio del ’900 la maggior parte delle teorie sembrava ruotare attorno a un’iperattivazione del sistema nervoso simpatico, con un meccanismo che si autoalimentava 4. Successivamente, in alternativa alla teoria precedente che coinvolgeva il sistema simpatico, alcuni autori proposero come primum movens un danno a livello delle piccole arteriole locali 5.

In realtà queste due teorie, cioè quella dell’iperattivazione del sistema nervoso simpatico e quella del danno arteriolare, nel corso dei decenni successivi ebbero uno sviluppo completamente differente nel mondo scientifico, poiché la teoria del danno vascolare, che oggi è quella più accreditata, venne quasi completamente abbandonata a favore della teoria dell’iperattivazione del sistema nervoso simpatico.

In un editoriale del 2015 viene illustrato come negli ultimi 150 anni numerosi autori abbiano cercato di descrivere questa sindrome caratterizzata da dolore e ognuno di essi abbia dato un nome diverso alla patologia, nel tentativo di spiegarne anche l’eziopatogenesi 2. Considerando la sola produzione scientifica italiana, si riconoscono ben 13 diversi appellativi a essa riferiti, che diventano quasi 50 della letteratura di lingua inglese. Appare comprensibile come questa variabilità renda difficoltosa la comunicazione tra specialisti e quella fra medico e paziente, nonché la comprensione da parte del paziente della propria condizione.

Evans, fautore della teoria che individuava come principale responsabile dei sintomi il sistema nervoso simpatico, definiva la sindrome “distrofia simpatica riflessa”. Tale definizione è la più utilizzata fino agli anni ’90, quando gli studiosi iniziano a interrogarsi sulla sua appropriatezza. Progressivamente si comprese che tale terminologia non risultava corretta mancando, in molte manifestazioni cliniche, il contributo del sistema nervoso simpatico, nonché gli aspetti di tipo distrofico.

Nel 1994, l’International Association for the Study of Pain (IASP) riunì un gruppo di algologici in una consensus conference che, valutando gli aspetti eziologici e le caratteristiche cliniche di questa sindrome, cercasse di fare un po’ di chiarezza e attribuisse un nome che potesse essere universalmente riconosciuto 6. Dal consensus di Orlando viene quindi coniato il nome di Complex Regional Pain Syndrome (CPRS), ovvero sindrome dolorosa regionale complessa. Questa denominazione cerca di focalizzare l’attenzione sulle manifestazioni cliniche di questa sindrome, che appare caratterizzata da un dolore regionale periferico, in cui le sedi principalmente coinvolte sono la parte distale degli arti, con manifestazione generalmente unilaterale. Inoltre la patologia viene definita come “complessa”, sia per la complessità della sindrome, ma soprattutto per l’estrema variabilità delle manifestazioni cliniche con cui si può presentare. Questo gruppo di algologi ha cercato, modificando i termini utilizzati in precedenza (atrofia simpatica riflessa, distrofia simpatica riflessa), di distogliere l’attenzione dal sistema nervoso simpatico, perché negli anni è stato riconosciuto a esso un ruolo molto più marginale rispetto a quanto si pensasse in precedenza.

Tuttavia, la diffusione della nuova terminologia per indicare tale condizione sindromica ha incontrato non pochi ostacoli e reticenze da parte della comunità medica. Alcuni autori hanno evidenziato un’aderenza pressoché completa degli specialisti della terapia del dolore a tale definizione, seppure permanga soprattutto in altre discipline, la tendenza all’utilizzo di appellativi differenti che contribuisce a creare ancora oggi confusione 7. Una critica che viene fatta a questa denominazione, che contribuisce al suo scarso impiego nella pratica clinica, è che toglie completamente l’attenzione dalle manifestazioni ossee e muscoloscheletriche in generale, per focalizzarsi solo sul sintomo dolore.


 

L’algodistrofia è una malattia rara?

Anche sui dati epidemiologici c’è parecchia discordanza in letteratura, sia perché la definizione e i criteri diagnostici utilizzati sono differenti, sia perché molti lavori scientifici sono stati fatti da gruppi di formazione specialistica diversa, che identificano aspetti diversi della patologia. Ad esempio, l’incidenza riportata cambia quando si vanno ad analizzare i lavori di chirurghi della mano o di ortopedici rispetto a quelli di neurologi o anestesisti.

Dai dati presenti in letteratura si può comunque rilevare che la malattia colpisce soprattutto il sesso femminile e le fasce di età intermedie. L’arto superiore sembra essere coinvolto maggiormente rispetto all’arto inferiore.


 

L’algodistrofia è una patologia di interesse ortopedico?

Il motivo per cui gli ortopedici sono interessati all’algodistrofia o, come meglio si dovrebbe dire alla CPRS, è che nel 75% dei casi il fattore scatenante è un trauma, spesso una frattura. Anche la chirurgia rappresenta un fattore che può scatenare questa patologia, soprattutto quando associata a un prolungato utilizzo del laccio emostatico.


 

Come si manifesta e come si giunge alla diagnosi?

Nell’evoluzione della patologia un po’ didatticamente si può riconoscere una fase iniziale infiammatoria, caratterizzata da edema e tumefazione, e una successiva fase distrofica. Oggi sappiamo che queste fasi spesso si intersecano tra loro e non è sempre presente una consecutio temporale. La diagnosi tempestiva è importante perché è ormai consolidato il fatto che intervenire durante la fase infiammatoria di esordio garantisce migliori risultati terapeutici e protegge dall’eventuale evoluzione in sequele atrofiche che possono lasciare esiti permanenti.

Anche dal punto di vista della diagnosi, nel corso degli anni ci sono state delle evoluzioni e negli ultimi decenni sono stati proposti diversi criteri diagnostici (Fig. 1).

 

 

La IASP ha riconosciuto degli elementi specifici nell’anamnesi e nella valutazione clinica del paziente, che permettono di porre diagnosi di sindrome dolorosa regionale complessa. Il primo contributo in tal senso è stato quello fornito alla consensus conference tenutasi a Orlando. Tali criteri definiti nel 1994 hanno tuttavia mostrato col tempo, a fronte di un’elevata sensibilità, una bassa specificità. Pertanto si è resa necessaria, sempre da parte della IASP, una revisione degli stessi criteri che sono stati aggiornati nel 2007 a Budapest per aumentarne la specificità 8 (Tab. I). A oggi i criteri di Budapest sono i più accreditati 9, in quanto focalizzano tutta l’attenzione sul dolore, che deve essere continuo e sproporzionato rispetto all’evento scatenante, oltre che sulla presenza di alcuni segni e sintomi clinici. Il limite di questi criteri è, come quanto già successo per la nomenclatura, quello di escludere il coinvolgimento osseo, focalizzando l’attenzione principalmente sul dolore e tralasciando le conseguenze scheletriche della malattia. Inoltre i criteri sono esclusivamente clinici e non si avvalgono di test e di esami strumentali.

 


 

Qual è il ruolo degli esami strumentali?

Seppure la diagnosi sia basata sui criteri clinici, l’imaging può essere molto utile ed è sicuramente di supporto (Fig. 2).

 

 

Tra le metodiche di imaging che possono maggiormente aiutare nella diagnosi, devono essere ricordate sia la scintigrafia trifasica con bifosfonati marcati con tecnezio, in cui si può evidenziare un alterato turnover osseo, sia la risonanza magnetica nucleare. Non va dimenticato che anche le semplici radiografie, come già aveva descritto Sudeck all’inizio del ’900, sono in grado di evidenziare nella CPRS un quadro di osteoporosi regionale, definita maculata per il suo aspetto disomogeneo, e caratteristicamente localizzata nelle regioni periarticolari.

Alla risonanza magnetica, nelle fasi precoci della malattia, si evidenzia un edema osseo, con una bassa intensità di segnale in T1 e un’alta intensità di segnale nelle sequenze in T2. Questo tipo di immagini non sono esclusive della Complex Regional Syndrome, perché numerose patologie possono determinare un edema osseo rilevabile alla risonanza magnetica (Figg. 3-4).

 

 

 

L’edema osseo è sicuramente una fonte di dolore: questo è noto e giustificato sia perché all’interno del midollo osseo sono presenti dei nocicettori che vengono stimolati dall’edema, sia perché ormai numerosi studi hanno evidenziato come i pazienti con artrosi ed edema osseo associato siano più sintomatici rispetto a quelli che non presentano edema osseo. A livello locale l’edema determina un’aumentata pressione intraossea che da una parte stimola direttamente i nocicettori, dall’altra causa una compromissione del microcircolo locale che determina un quadro di acidosi e ipossia, con rilascio di citochine infiammatorie che vanno a loro volta ad aumentare la pressione intraossea, autoalimentando questo circolo vizioso. La maggiore acidosi locale provoca una dissoluzione dei cristalli di idrossiapatite a livello scheletrico e quindi osteoporosi localizzata, ben evidente in tutte le forme di algodistrofia.


 

Come si affronta farmacologicamente l’algodistrofia?

Per quanto riguarda la terapia, nel trattamento dell’algodistrofia sono stati sperimentati molti farmaci, tra cui gli antinfiammatori, gli antidolorifici centrali e gli antidepressivi.

La terapia farmacologica che sembra offrire la maggiore efficacia è oggi rappresentata dai bifosfonati.

Il razionale che sostiene l’utilizzo dei bifosfonati è dovuto al fatto che a livello scheletrico, dove vengono accumulati, questi farmaci, oltre ad avere la nota attività di inibizione degli osteoclasti e quindi del turnover osseo, hanno anche altre proprietà. In particolare, i bifosfonati sono in grado di ridurre l’acidosi locale e il rilascio di citochine infiammatorie, hanno un’attività anti-monocito-macrofagica. Inoltre, contrastando l’acidosi locale, riducono la dissoluzione dei cristalli di idrossiapatite e la stimolazione dei nocicettori, che sono sensibili all’acidosi.

I bifosfonati sono una classe farmacologica eterogenea: pur essendo caratterizzati da una struttura comune, le diverse molecole presentano caratteristiche differenti sia per la diversa capacità di legarsi ai cristalli di idrossiapatite, sia per il diverso effetto antiriassorbitivo.

Nella CPRS sono stati utilizzati diversi tipi di bifosfonati con buoni risultati su modello animale e clinici 10-12. In un lavoro del 2012 sono stati reclutati 82 pazienti, tutti affetti da algodistrofia di mano e piede, con una diagnosi fatta da meno di quattro mesi. I pazienti sono stati suddivisi in due gruppi: un gruppo trattato con placebo e un gruppo con neridronato. Per quest’ultimo la posologia era di 4 infusioni di 100 milligrammi di neridronato in dieci giorni (al giorno 1, 4, 7 e 10). L’endpoint principale dello studio era la riduzione del dolore (con riduzione della VAS di almeno il 50%), mentre gli endpoint secondari erano la riduzione dell’algodinia, dell’iperalgesia e del dolore al movimento passivo. Nello studio si è osservata una significativa riduzione del dolore nei pazienti trattati con neridronato rispetto ai pazienti trattati con placebo. Anche tutti gli endpoint secondari sono stati perseguiti nei pazienti trattati con neridronato. Lo studio è stato poi proseguito, per cui mentre i pazienti trattati con neridronato non facevano ulteriori trattamenti, i pazienti che avevano inizialmente assunto placebo sono stati trattati con neridronato, confermando anche in questi pazienti gli effetti già descritti. Un dato significativo è che il 100% dei pazienti trattati con neridronato aveva sospeso le terapie antidolorifiche al termine del follow-up 13.

Alla luce di questo lavoro, il neridronato è stato approvato per l’utilizzo nell’algodistrofia e AIFA ha quindi indicato il neridronato come farmaco di prima scelta nel trattamento della CRPS in fase precoce. È stato infatti evidenziato che, per avere la maggiore efficacia, i bisfosfonati vanno iniziati in una fase precoce della malattia, preferibilmente entro i 6 mesi dall’insorgenza. L’efficacia dei bifosfonati diventa minore con il passare dei mesi dalla diagnosi 14.

Al momento il neridronato rappresenta l’unico bifosfonato con indicazione specifica per l’algodistrofia, mentre l’uso degli altri bifosfonati, seppur diffuso nella pratica clinica, è da considerarsi off-label.

Recentemente è stato indagato l’utilizzo di neridronato per via intramuscolare, alla dose di 25 milligrammi al giorno per 16 giorni 15. Anche con questa via di somministrazione è stata osservata una riduzione significativa del dolore e dell’edema, algodinia, iperalgesia e dolore provocato dal movimento rispetto al gruppo placebo. Valutazioni a 30 giorni dall’inizio dello studio hanno rilevato una percentuale di pazienti che ha risposto alla terapia molto elevata. Confrontando i dati ottenuti dai questi due studi possiamo sottolineare come entrambe le vie di somministrazione hanno portato a buoni risultati clinici senza differenze significative. I buoni risultati della somministrazione per via intramuscolo sono stati addirittura evidenziati a 30 giorni dall’inizio della terapia rispetto ai dati del neridronato endovena, che per il differente disegno dello studio erano stati raccolti in quarantesima giornata. In entrambi i lavori osserviamo che vengono utilizzati alti dosaggi di bifosfonato, concentrati in un breve lasso di tempo.


 

Conclusioni

L’algodistrofia è una patologia ancora oggi di difficile inquadramento clinico e diagnosi. Il trattamento deve essere iniziato il più precocemente possibile per ottenere i migliori risultati, evitando la cronicizzazione del dolore e le possibili evoluzioni in senso distrofico.

Fra le classi farmacologiche utilizzate nel trattamento, i bifosfonati hanno ottenuto risultati clinici soddisfacenti. Nella scelta di un bifosfonato, bisogna prediligere una molecola che presenti un’alta affinità con i cristalli di idrossiapatite e un’elevata attività anti-macrofagica. I dosaggi devono essere elevati e somministrati in un breve lasso di tempo.

Il neridronato, al momento, è pertanto l’unico farmaco ad avere ottenuto il riconoscimento di AIFA per l’impiego specifico nell’algodistrofia.


 

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