Medicina di Famiglia e Specialistica
COVID-19

Vitamina D, rischio di infezione da SARS-CoV-2 e severità COVID-19: dubbi, possibilità ed evidenze

28 Nov 2022

da Vitamin D UpDates

Giovanni Lombardi

Laboratorio di Biochimica Sperimentale e Biologia Molecolare, IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi, Milano, Italia;
Dipartimento di Atletica e Riabilitazione Motoria, Università di Scienze Motorie di Poznań, Poznań, Polonia; Coordinatore del Gruppo di Studio inter-societario SIBioC-SIOMMMS “Biochimica Clinica e Metabolismo del Tessuto Osseo e del Tessuto Muscolare”; Membro del Working Group IFCC “Bone Markers”

 

 

Introduzione

Vitamina D è un regolatore chiave di sviluppo e maturazione di tutti i lineages immunitari. La supplementazione, in caso di carenza, ha mostrato effetti positivi verso le infezioni respiratorie acute, sebbene non riduca l’incidenza di eventi seri.

Molti report, basati sulle osservazioni effettuate durante la prima ondata pandemica in Italia, hanno suggerito l’associazione tra carenza di vitamina D, rischio di infezione da SARS-CoV-2, incidenza e severità di COVID-19, mortalità. Osservazioni speculative, che mettevano in relazione la più alta prevalenza di ipovitaminosi D tra i paesi europei e l’altissima prevalenza di infezioni SARS-CoV-2 e COVID-19 in Italia, e soprattutto nelle regioni settentrionali, hanno definito l’associazione tra i due eventi senza verificarne il nesso di causalità e senza escluderne la casualità. Status vitaminico D, rischio di infezione e sviluppo di forme gravi della patologia sono fenomeni complessi dipendenti da innumerevoli variabili la cui complessa relazione di interdipendenza non può essere descritta dalla loro mera sommatoria. Pertanto, solo studi svolti in ampie coorti e non prescindenti da variabili fondamentali possono assumere una rilevanza epidemiologica 1.

 

Ruolo della vitamina D nelle risposte immunitarie innata e adattativa

La vitamina D ha ruoli rilevanti in ambito di immunità innata, attraverso l’azione antimicrobica [regolazione di metabolismo marziale, autofagia e funzione barriera degli epiteli, stress ossidativo, espressione di composti ad attività antimicrobica (defensine, catelicidine) e toll-like receptors], di modulazione della risposta adattativa e induzione di tolleranza 1.

Più nello specifico, l’1,25(OH)2D svolge, di per sé, attività antimicrobica in quanto in grado di indurre l’espressione di catelicidina e β-defensina 2, proteine con efficacia antimicrobica sia diretta che indiretta (attraverso la stimolazione della chemiotassi delle cellule del sistema immunitario, inducendo l’espressione di citochine pro-infiammatorie e determinando la rimozione di cellule infette nel tratto respiratorio). L’espressione di β-defensina 2 è stimolata dalla vitamina D anche attraverso l’induzione di nucleotide-binding oligomerization domain-containing protein (NOD2) 2. Inoltre, l’1,25(OH)2D inibisce l’espressione di epcidina e determina, pertanto, l’eliminazione del blocco epcidina-mediato dell’esportazione di ferro dipendente da ferroportina: il risultato netto è l’aumentato efflusso di ferro dalla cellula infettata e, conseguentemente, la riduzione della disponibilità di questo elemento per la crescita microbica 3. A onore del vero, gli effetti antimicrobici della vitamina D sono molteplici e includono, anche, la stimolazione della funzione barriera degli epiteli intestinale 4 e alveolare 5, della produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) 6, della funzione neutrofilica 7 e delle attività fagocitiche e autofagocitiche (attraverso l’induzione degli effettori chiave dell’autofagia: LC3, beclina 1 e PI3Kγ3) dei macrofagi 8. Sia l’induzione di catelicidina e defensine, sia la stimolazione delle vie pro-autofagiche in cellule presentanti l’antigene hanno un importante effetto anti-virale e, rispettivamente, di inibizione della replicazione dei virus 9 e di aiuto nella clearance delle particelle virali 10.

In ambito di immunità adattativa, il calcitriolo limita l’attivazione dei linfociti T 11 e induce l’espressione di fenotipi regolatori (Treg) che mediano la tolleranza immunitaria e limitano risposte immuni abnormi e lo shift fenotipico da T helper Th1/Th17 a Th2 (da pro-infiammatorio a regolatorio) 12.

L’efficacia dell’azione della vitamina D è funzione dell’attività del suo recettore, VDR. Infatti, polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs) nel gene VDR hanno effetti sulla responsività della proteina e sono stati associati a numerose disfunzioni immunitarie: rispetto ai genotipi CT e CC, il genotipo TT del polimorfismo FokI, ad esempio, è stato associato a un maggior rischio di infezioni da virus respiratorio sinciziale (SCV) 13.

 

Vitamina D e rischio di infezione da SARS-CoV-2

L’ipotesi di un ruolo della vitamina D nella suscettibilità all’infezione da SARS-CoV-2 deriva, in parte, dall’osservazione dell’alta prevalenza di ipocalcemia (50%) tra i pazienti ospedalizzati durante le epidemie di Ebola (2016) e SARS (2003). Fino all’80% dei pazienti COVID-19 ospedalizzati in Italia, durante la prima ondata, riportava [Ca2+] < 1,18 mmol/L. Il calcio libero è necessario per interazione virus-cellula (via proteina spike e ACE2), replicazione virale e risposta infiammatoria all’infezione. L’associazione tra status vitaminico D e rischio di infezione potrebbe essere, almeno in parte, conseguente alla deregolazione dell’omeostasi (fosfo)calcica 14. Che il calcio sia fondamentale nel processo di infezione è dimostrato, tra le altre cose, dal fatto che il blocco farmacologico dei canali del calcio L-type rallenta la velocità di replicazione del deltacoronavirus suino 15.

Il calcio libero intracellulare è richiesto durante la risposta a SARS mediata dal complesso dell’inflammasoma NOD-, LRR- e pyrin domain-containing protein 3 (NLRP3) 16,17. Durante l’infezione da coronavirus, incluso SARS-CoV-2, il calcio media la fusione dell’envelope virale con la membrana della cellula ospite: le subunità S1/S2 della proteina virale di fusione spike (S) interagiscono in maniera calcio-dipendente con il macchinario endocitico della cellula ospite e/o con il dominio transmembrana di ACE2 (angiotensin-converting enzyme 2), il designato recettore di SARS-CoV-2 espresso dalle cellule degli epiteli alveolare, intestinale e tubulare renale, da cardiomiociti e cellule endoteliali 18,19.

Numerosi sono gli articoli pubblicati a supporto dell’ipotesi dell’esistenza di una associazione tra status vitaminico D e rischio di infezione da SARS-CoV-2. Tra i primi studi in questo senso, una ricerca statunitense, che ha preso in analisi 191.779 soggetti, nel trimestre compreso tra metà marzo e metà giugno 2020, ha evidenziato una forte associazione anche dopo aggiustamento per fattori demografici (quali latitudine, etnia, genere, età) 20.

Una recentissima revisione sistematica identifica una relazione inversa tra basse temperature, indice UV, cloud-free vitamin D UV dose (UVDVF) e prevalenza di COVID-19, in Europa 21. Di contro, un nostro studio (2021), condotto su 101.035 soggetti dell’area di Milano, che ha posto in relazione il periodo pre-pandemico (2019) e i periodi comprendenti le cosiddette “prima” (gen-ago 2020) e “seconda ondata” (giu-nov 2020), non ha evidenziato alcuna relazione diretta tra indici di esposizione solare, livelli di 25(OH)D e infezione da SARS-CoV-2. Inoltre, non ha identificato alcuna relazione tra 25(OH)D e confinamento domestico durante i lockdown presupponendo all’esistenza di altre variabili non considerabili 22.

Rilevanti sono gli studi effettuati sulle casistiche da biobanca: in 348.598 partecipanti alla UK Biobank (37-73 anni), l’associazione tra 25(OH)D e rischio di infezione viene persa dopo aggiustamento per fattori confondenti e provenienza etnica 23,24. Fattore rilevante, ma spesso non riportato negli studi, è la supplementazione.

Data la grande quantità (e varietà) di studi sull’argomento, è necessario il supporto delle metanalisi. Buona parte di esse identifica un’associazione inversa tra deficienza di vitamina D e rischio di infezione da SARS-CoV-2 (Tab. I). Alcuni di questi report, però, evidenziano la forte dipendenza di questa associazione da altre variabili come l’età avanzata, comorbidità (es. diabete, ipertensione, adiposità) e, eventualmente, l’appartenenza al genere maschile. Emerge, pertanto, l’impossibilità di stabilire se la carenza vitaminica rappresenti una causa dell’aumentato rischio di infezione o, piuttosto, rifletta (o sia conseguente a) una condizione fisiopatologica che di per sé aumenta il rischio di infezione.

 

 

Vitamina D e severità COVID-19

Lo scenario attuale suggerisce l’associazione tra ipovitaminosi D e severità di COVID-19 ma è altresì evidente che comorbidità ed età hanno un ruolo decisamente più rilevante. Ciononostante, l’ipovitaminosi D cronica può predisporre allo sviluppo di comorbidità ed essere, pertanto, determinante più o meno indiretto della severità della malattia: difatti, età avanzata e sovrappeso sono associati sia a decorso COVID-19 più severo sia a ipovitaminosi D 36.

Per la vitamina D è stato ipotizzato un ruolo in acute respiratory distress syndromes (ARDS). ACE2, che come riportato in precedenza funge da sito di attracco per la proteina virale S, è un enzima che converte angiotensina II (Ang-II) in angiotensina 1-7 [Ang(1‑7)]. Quest’ultima ha azione vasodilatatrice, antinfiammatoria e di protezione dal danno d’organo 37. A seguito del legame con la proteina S, il complesso ACE2-particella virale viene internalizzato e, pertanto, l’attività enzimatica di ACE2 risulta down-regolata. La down-regolazione di ACE2 è associata a una risposta infiammatoria abnorme che può causare danno tissutale che determina, a sua volta, ulteriore down-regolazione di ACE2. Questo processo può esitare nella sindrome acuta da distress respiratorio (ARDS) 38,39. La vitamina D ha un ruolo protettivo verso ARDS data la capacità di inibire l’espressione di renina e dell’attività dell’asse ACE/Ang-II/AT1R e di stimolare, invece, l’asse ACE2/Ang-(1-7)/MasG (recettore Mas associato a proteina G). Pertanto, la vitamina D agisce da modulatore endocrino negativo del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) 40,41. Proprio la risposta infiammatoria abnorme (tempesta citochinica), conseguente all’infezione da SARS-CoV-2, è responsabile dello sviluppo di COVID-19 e, in alcuni casi, di manifestazioni di severità crescente 42.

La cosiddetta “tempesta citochinica”, caratterizzata dal massivo e sostenuto rilascio di citochine pro-infiammatorie (IL-1, IL-6, TNFα, IFNγ), è responsabile dei sintomi e del danno d’organo (a carico, soprattutto, di polmoni e cuore). Di queste citochine, IL-6 è risultata associata a prognosi e mortalità in casi COVID-19 severi (livelli circolanti 2,9 volte quelli registrati nei casi meno gravi). I dati disponibili supportano il ruolo della vitamina D nel mitigare la tempesta citochinica attraverso l’induzione di mediatori antinfiammatori (IL-10, IL-4, TGFβ). Inoltre, come descritto in precedenza, l’induzione da parte di 1,25(OH)2D dell’espressione dei fenotipi a funzione più propriamente antinfiammatoria e regolatoria Th2 e T-reg, a spese di quelli pro-infiammatori Th1/Th17 e più prominentemente coinvolti nello storm citochinico, potrebbe avere un effetto nel mitigare la risposta iperinfiammatoria e, pertanto, le manifestazioni di COVID-19 14.

Uno studio Iraniano, basato su dati raccolti durante la prima ondata (fino a maggio 2020), riporta che dei pazienti ospedalizzati per COVID-19, il 74% presentava una malattia severa e, di questi, il 32,8% presentava uno status vitaminico D adeguato. Livelli sufficienti di vitamina D associavano con una condizione clinica meno severa, riduzione della mortalità, livelli di CRP più bassi e una conta relativa di linfociti più elevata. Dei pazienti deceduti, di età superiore ai 40 anni, solo il 9,7% presentava livelli sufficienti di vitamina D contro il 20% che, invece, presentava livelli < 30 ng/mL 43. Dello stesso periodo è uno studio Italiano che ha preso in considerazione 61 pazienti ospedalizzati per COVID-19 evidenziando che il 72,1% di essi presentava livelli di 25(OH)D < 20 ng/mL (di cui il 57,4% addirittura inferiori a 15 ng/mL). I valori di pressione parziale di ossigeno arterioso e CRP, come pure la severità della patologia, sono risultati associati allo status vitaminico D 44.

Anche l’ipocalcemia conseguente a ipovitaminosi D è stata associata a una prognosi peggiore. L’ipocalcemia è risultata più frequente in maschi e anziani e i livelli di calcio sono risultati inversamente associati a CRP, LDH e rischio di ricovero in terapia intensiva (ICU). Inoltre [Ca2+] < 2,00 mmol/L all’ammissione associavano con condizioni cliniche peggiori, incidenza di danno d’organo e shock settico e mortalità a 28 giorni. La concentrazione di calcio sierico ha, effettivamente, un valore prognostico definito da una AUC di 0,73 1.

Come si evince dalla raccolta di metanalisi (Tab. II), se livelli bassi di vitamina D sembrano associare con una sintomatologia più severa e un maggior rischio di ospedalizzazione, meno definita è, invece, l’associazione con altri outcome, e in particolare con rischio di ricorso alla ventilazione meccanica, ammissione a ICU e mortalità. In una delle revisioni sistematiche più recenti, che include 20 studi e 12.806 pazienti di età compresa tra 42 e 81 anni, non è stata riscontrata alcuna differenza tra soggetti ipo- e normovitaminosici in fatto di mortalità, ammissione a ICU, supporto alla ventilazione e durata dell’ospedalizzazione 45. Similmente, l’analisi di 6 studi e 1.424 pazienti, non evidenzia alcuna differenza nei livelli di 25(OH)D tra pazienti COVID-19 severi e non severi, come pure nessuna associazione con la mortalità 46.

 

 

È evidente l’ampia varietà, e la discrepanza, di risultati tra i vari studi e i relativi bias. Uno fra tutti è la relazione temporale tra dosaggio di vitamina D e diagnosi di COVID-19 che, nei diversi studi, varia dai 12 mesi antecedenti alla valutazione contestuale.

Riguardo l’utilità della supplementazione con vitamina D, una metanalisi di 6 RCT e 551 pazienti COVID-19 supporta l’efficacia dell’intervento in termini di accesso a ICU, mortalità e positività al test PCR 49. Risultati simili emergono da una metanalisi di revisioni sistematiche 50. Dalle metanalisi pubblicate (a giugno 2022) emerge, invece, che l’intervento di supplementazione ha una efficacia limitata (Tab. III). Anche in questo caso, la grande varietà nel disegno degli studi e delle coorti considerate rende difficile trarre delle conclusioni generali.

Dal punto di vista fisiologico, merita attenzione vitamin D binding protein (VDBP) che, oltre a legare ad alta affinità l’1,25(OH)2D, interviene nella regolazione della risposta immunitaria innata e neutralizza G-actina libera, rilasciata in grandi quantità a seguito di morte cellulare in ARDS e stimola potente risposta infiammatoria, coagulazione intravascolare, degranulazione vescicolare, chemoattrazione leucocitaria 51.

 

 

Vitamina D ed efficacia vaccinale

L’introduzione di trattamenti efficaci nel prevenire le forme COVID-19 severe, e in particolare i vaccini, è stata il punto di svolta. A oggi mancano report sull’associazione tra livelli di vitamina D (ed eventuale supplementazione) e l’efficacia vaccinale. L’associazione positiva tra 25(OH)D e titolo anticorpale è stata rilevata in uno studio britannico dopo 8 settimane dalla prima dose di BNT162b2 58 ma non in una popolazione greca dopo seconda dose 59.

 

Conclusioni

Nonostante le numerose osservazioni, l’associazione causa-effetto tra status vitaminico D, rischio di infezione da SARS-CoV-2 e severità di COVID-19 non è stata stabilita. È ragionevole supporre che uno status vitaminico D adeguato rispecchi una omeostasi bilanciata e, pertanto, favorisca una risposta più efficace all’infezione 14. A supporto, una recente revisione sistematica identifica la deficienza di micronutrienti, inclusi calcio e vitamina D, come variabile rilevante per rischio di ammissione a ICU, intubazione e morte 60. Altri Autori sostengono che, data la comprovata sicurezza della supplementazione con vitamina D, la sola possibilità di una associazione giustifica l’implementazione di protocolli di trattamento.

Un aspetto poco considerato, ma meritevole di approfondimento in termini preventivi di eventuali future epidemie, è rappresentato dall’effetto di insufficienza/deficienza cronica che potrebbe rappresentare una causa, o concausa, più plausibile della carenza attuale, delle disfunzioni alla base dell’aumentato rischio di eventi avversi.

 

Ringraziamenti

Questo studio è supportato e finanziato dal Ministero della Salute – “Ricerca Corrente”.

 

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