Medicina di Famiglia e Specialistica
Metabolismo

Vitamina D nelle malattie cardiovascolari

17 Mag 2024
Vitamina-D-nelle-malattie-cardiovascolari

da Vitamin D UpDates

 

 

Introduzione

Il ruolo della vitamina D nell’ambito del metabolismo calcio-fosforico e la sua importanza fondamentale per la crescita e per il mantenimento dell’integrità dello scheletro nel corso dell’intera vita sono stati da tempo riconosciuti. In aggiunta a questo, e già da molti anni ormai, una considerevole mole di evidenze di tipo sperimentale, clinico ed epidemiologico ha messo in luce altre importanti funzioni del sistema biologico della vitamina D in relazione al differenziamento e alla crescita cellulare, alla modulazione della risposta immunitaria, al controllo dell’attività di altri sistemi ormonali e, non da ultimo, alla capacità di interferire con i principali fattori di rischio cardiometabolico e di influenzare lo sviluppo e la progressione di numerosi disordini cardiovascolari 1. In una precedente rassegna pubblicata su questa stessa rivista nel 2019 sono stati ampiamenti discussi la composizione e le funzioni del sistema biologico della vitamina D, i criteri di misurazione e di valutazione dello stato nutrizionale della vitamina, e i risultati di numerosi studi sulle possibili relazioni tra stato nutrizionale della vitamina D e alterazioni metaboliche e cardiovascolari, con una discussione delle possibili connessioni fisiopatologiche 2. Negli ultimi anni a partire da quella data la ricerca clinica ed epidemiologica si è impegnata sia nell’ottenere ulteriori conferme di quanto osservato attraverso i precedenti studi clinici e osservazionali, sia soprattutto nel tentativo di dimostrare l’eventuale ruolo “causale” della carenza di vitamina D rispetto alle suddette condizioni patologiche attraverso trial controllati e randomizzati di elevata qualità scientifica. La presente rassegna si propone pertanto di mettere selettivamente a fuoco i risultati di questi ultimi studi e di discutere le basi scientifiche di un impiego della supplementazione della vitamina D a scopo profilattico o terapeutico.

 

 

Risultati dei più recenti studi osservazionali

La Tabella I riporta in forma sintetica i dati essenziali forniti dalle più recenti pubblicazioni che si riferiscono a studi di tipo osservazionale: essa comprende uno studio prospettico su un ampio campione di popolazione americana, due studi di randomizzazione mendeliana e un notevole numero di meta-analisi di studi prospettici, la maggior parte delle quali concentrata sulla mortalità totale e cardiovascolare o su altri outcome cardiovascolari. Lo studio prospettico di Wan et al. 3, eseguito su un campione piuttosto numeroso di pazienti diabetici estratti dalla popolazione dello studio NHANES (National Health and Nutrition Examination Survey), con un lungo follow-up e un considerevole numero di eventi, ha evidenziato, come molti studi osservazionali precedenti, una forte e statisticamente significativa associazione inversa tra il livello plasmatico basale di 25(OH)D e il rischio di morte per cause cardiovascolari e per tutte le cause. Gli studi di Heath et al. 4, Gholami et al. 5 e Jani et al. 6 sono tutti meta-analisi di studi prospettici condotti prevalentemente su campioni di popolazione generale: di essi lo studio di Gholami et al. è il più selettivo avendo escluso i non pochi studi condotti su partecipanti affetti già in sede basale da patologie cardiometaboliche o di altro tipo che potessero favorire il fenomeno della “reverse causation”, per il quale più bassi livelli di vitamina D sarebbero non già la causa della malattia ma una sua conseguenza dovuta a minore possibilità di esposizione ai raggi solari e/o a carenze nutrizionali. Di fatto, in tutte e tre le meta-analisi è stata riscontrata in modo consistente un’associazione inversa tra valori basali di 25(OH)D e l’outcome primario dello studio, che era la mortalità totale per lo studio di Heath et al., la mortalità cardiovascolare per quello di Gholami et al., e l’incidenza di un primo evento o di eventi cardiovascolari ricorrenti per lo studio di Jani et al. La meta-analisi di Wang et al. 7 mette a fuoco invece gli studi prospettici eseguiti su campioni di pazienti affetti da insufficienza cardiaca: il numero di tali studi è relativamente piccolo (n = 7), ma il numero totale di pazienti discretamente numeroso (circa 6.000), con un follow-up tra 1 e 5 anni: lo studio ha rilevato una significativa relazione inversa tra i livelli basali di 25(OH)D e mortalità o rischio di riospedalizzazione per insufficienza cardiaca e/o sue complicanze. La meta-analisi di Kong et al. 8 ha valutato la relazione tra i livelli basali di 25(OH)D e rischio di eventi cardiovascolari fatali o morte improvvisa in 19 studi, con oltre 40 mila partecipanti e oltre 3.000 eventi in un periodo di 2-14 anni: anche in questo caso la relazione oggetto dello studio è risultata di tipo inverso, lungo un ampio range di concentrazioni di 25(OH)D, con un incremento del rischio del 75% nel confronto tra livelli < 10 e livelli > 100 nmol/L. La meta-analisi di Javedi et al. 9 ha considerato invece soltanto gli studi prospettici condotti su pazienti diabetici, dimostrando anche in questa categoria di pazienti un’associazione inversa tra livelli basali di 25(OH)D e mortalità per tutte le cause, con un plateau a circa 60 nmol/L e un rischio aumentato del 36% per valori compresi tra 25 e 50 nmol/L e del 56% per valori < 25 nmol/L. I risultati erano simili per la morbilità e la mortalità cardiovascolari. Infine, la meta-analisi di Vergatti et al. 10 ha preso in esame 4 studi condotti su circa 8.000 pazienti che avevano subito un ictus cerebrale, con un follow-up compreso fra 3 e 86 mesi, e 496 casi di nuovo episodio ictale. Lo studio ha evidenziato un effetto protettivo di livelli più alti di 25(OH) D basali con una riduzione del rischio di recidiva pari all’80% nella categoria più alta (> 28 nmol/L) in confronto a quella più bassa di vitamina D. Le ultime due pubblicazioni incluse in Tabella I nel novero degli studi “osservazionali” sono due studi di randomizzazione mendeliana, condotti peraltro da due gruppi indipendenti di autori a partire da una singola popolazione. Occorre premettere che la randomizzazione mendeliana è una metodica che fa in qualche modo da ponte tra la categoria degli studi osservazionali e quella dei trial di intervento controllati e randomizzati: attraverso l’uso delle varianti alleliche di uno o più geni coinvolti nella codifica di una certa proteina, consente di acquisire elementi robusti di evidenza riguardo la possibilità di relazioni causali tra determinati fattori di rischio e outcome clinici di interesse. Il principale vantaggio di questa metodica è la sua capacità di neutralizzare in buona misura l’effetto dei fattori confondenti che affliggono i classici studi di osservazione e, in particolare, ridurre il rischio di “reverse causality”. Nella pratica, contrapponendo, nell’ambito di una popolazione osservata e seguita nel tempo, i soggetti con una o più varianti geniche, che determinano rispettivamente livelli più alti o più bassi di una certa sostanza – nel nostro caso la 25(OH)D –, essa permette di confrontare nei due gruppi l’incidenza di determinati eventi al pari di quanto realizzato attraverso un RCT, ma con costi e fatica molto minori. Gli studi di Sutherland et al. 11 e di Zhou et al. 12 hanno avuto come oggetto la stessa popolazione di circa 300.000 partecipanti della UK Biobank, con valori di 25(OH)D misurati e predetti sulla base di 35 varianti genetiche e un follow-up di 14 anni. La differenza tra i due studi è nell’outcome costituito nel primo caso dalla mortalità totale e cardiovascolare e nel secondo dai casi incidenti di malattia cardiovascolare. In entrambi gli studi è stata rilevata una significativa associazione inversa di tipo L-shaped (non lineare) tra 25(OH)D predetta geneticamente e i rispettivi outcome, con un ripido calo del rischio di mortalità e morbilità per concentrazioni crescenti fino a 50 nmol/L, dove si osserva un plateau, in modo non dissimile dai tradizionali studi di osservazione.

 

TABELLA 1 - Vitamina D nelle malattie cardiovascolari

 

Risultati dei trial di intervento più recenti

La Tabella II riporta i dati essenziali dei trial d’intervento randomizzati e controllati che hanno testato l’efficacia della supplementazione di vitamina D in vari tipi di popolazione: essa include un singolo RCT e una serie di meta-analisi di RCT prevalentemente, ma non esclusivamente, orientate alla valutazione degli effetti della supplementazione sulla mortalità e la morbilità cardiovascolari.

Lo studio di Virtanen et  al. 13 ha testato l’efficacia di 1.600 o 3.200 UI di vitamina D3/die contro placebo in un campione di popolazione generale finlandese esente da malattie cardiovascolari al basale, registrando nell’arco di 5 anni 119 eventi cardiovascolari maggiori. La supplementazione non ha conferito alcuna significativa protezione rispetto al placebo riguardo l’incidenza di eventi CV totali o specifici. Limiti importanti dello studio erano gli elevati livelli basali di 25(OH)D e il basso grado di rischio cardiovascolare della maggior parte del campione, con conseguente basso numero d≠i eventi.

Le meta-analisi di Zhang 14, Pei 15, Ruiz-Garcìa 16 e Mattumpuram 17 e rispettivi collaboratori, hanno tutte avuto come oggetto studi realizzati su campioni di popolazione generale. Tre di questi studi 14,15,17 non hanno dimostrato alcun effetto della supplementazione di vitamina D sulla mortalità o la morbilità cardiovascolare; viceversa, la meta-analisi di Rui-Garcìa et al., che si differenziava per aver incluso esclusivamente trial di durata > 1 anno e con almeno 50 partecipanti, ha dimostrato una riduzione della mortalità totale, soprattutto relativamente ai trial di maggiore qualità ovvero con più basso rischio di bias. La meta-analisi di Zhang et al., pur in assenza di un risultato positivo per l’outcome principale, faceva rilevare tuttavia un trend più favorevole per gli studi di durata maggiore e con supplementazione di vitamina D3 piuttosto che D2. La meta-analisi di Jayedi et al. 9, che ha incluso esclusivamente i trial condotti in pazienti diabetici, non ha dimostrato efficacia protettiva della supplementazione verso morbilità e mortalità cardiovascolari, denotando tuttavia un livello di evidenza piuttosto basso. A sua volta lo studio di Khan et al. 18, che ha incluso i trial condotti in soggetti pre-diabetici, non ha rilevato alcuna efficacia della supplementazione nel ridurre l’incidenza di diabete o nel migliorare la resistenza all’insulina.

La meta-analisi di Yeung et al. 19, con inclusione di trial condotti in pazienti nefropatici, parimenti non dimostrava efficacia nel ridurre la mortalità totale o cardiovascolare, pur con i limiti di trial di durata molto breve, bassa numerosità e scarsa qualità. La meta-analisi di Pincombe et al. 20, che si caratterizzava per la valutazione di trial che hanno esaminato gli effetti della supplementazione di vitamina D sulla funzione endoteliale e per includere un 42% di pazienti con insufficienza o carenza di vitamina D al basale, non ha riscontrato un beneficio significativo su nessuno dei principali parametri di funzione endoteliale, se non per un trend positivo della vasodilatazione flusso-mediata.

Infine, la rassegna sistematica di Zittermann et  al. 21, che ha valutato 22 studi che riportavano gli eventuali effetti avversi della somministrazione di vitamina D in dose da 3.200 a 4.400 UI /die contro placebo per almeno 6 mesi, ha dimostrato con queste dosi un maggior rischio di ipercalcemia (per quanto contenuto in 4 casi su 1.000 soggetti trattati), ma non di ipercalciuria, nefrolitiasi o mortalità totale.

 

TABELLA 2 - Vitamina D nelle malattie cardiovascolari

 

Discussione

L’analisi complessiva dei diversi tipi di studi più recenti che hanno valutato l’impatto della carenza di vitamina  D e della sua eventuale supplementazione sui principali outcome cardiovascolari conferma quanto emerso in precedenza: una forte discrepanza tra i risultati degli studi osservazionali e quelli dei trial d’intervento. Laddove i primi, corroborati anche dai risultati dei più recenti studi di randomizzazione mendeliana, evidenziano con chiarezza e coerenza interna l’impatto negativo di una condizione di insufficienza e ancor di più di carenza di vitamina D, i secondi al contrario, sia pure con qualche eccezione, non supportano il potenziale beneficio derivante dalla supplementazione vitaminica e, quindi, non farebbero propendere per un ruolo causale della carenza vitaminica nel determinismo delle alterazioni metaboliche e cardiovascolari. L’impossibilità di dimostrare l’atteso effetto protettivo della correzione della carenza vitaminica rischia di generare e, di fatto, ha in certa misura generato una paralisi decisionale riguardo l’eventuale supplementazione vitaminica.

Per fornire un contributo al superamento di questa impasse, potenzialmente dannosa o anche molto dannosa per la salute dei pazienti, si offrono all’attenzione tre ordini di considerazioni. La prima di queste riguarda la qualità e validità scientifica dei trial controllati e randomizzati ai fini della dimostrazione del rapporto “causale” tra carenza vitaminica e rischio cardiovascolare. A questo riguardo occorre prendere atto che già grossi trial come il VIDA (Vitamin D Assessment Study), il VITAL (VITamin D and OmegA-3 TriaL) e il D2D (The Vitamin D and Type 2 Diabetes) avevano fornito evidenza che la supplementazione di vitamina D, a scopo preventivo e non sostenuta dalla documentata presenza di insufficienza o carenza, non arrecava benefici convincenti: d’altra parte questi stessi studi, proprio in virtù del loro disegno sperimentale, non hanno potuto dimostrare se una supplementazione condotta in modo adeguato, in pazienti certamente carenti e con un monitoraggio nel tempo dei livelli di 25(OH)D conseguiti attraverso la supplementazione stessa, eserciti o meno un’azione protettiva. Né questo tipo di dimostrazione è stata prodotta dagli studi di intervento più recenti, considerati in questa rassegna, in quanto a loro volta affetti dallo stesso tipo di limitazioni con l’aggiunta in molti casi di follow-up eccessivamente brevi e di numerosità insufficienti: fanno eccezione, peraltro, le meta-analisi di Ruiz-Garcìa et al. e di Zhang et al. che hanno mostrato un possibile beneficio attraverso la selezione di trial di maggiore durata e con un numero più alto di partecipanti.

Il secondo ordine di considerazione riguarda la modalità di valutazione dell’esistenza o meno di una relazione causale tra un determinato fattore di rischio (nel nostro caso la carenza di vitamina D) e uno o più outcome predefiniti. A questo proposito è stato da alcuni autorevolmente suggerito, analogamente a quanto realizzato in relazione ad altre applicazioni importanti della medicina preventiva, che l’analisi dei risultati dei trial controllati e randomizzati non debba essere il solo strumento di valutazione, ma che questa sia affiancata dall’analisi complessiva di tutti gli elementi di conoscenza disponibili. In particolare, si è fatto riferimento ai criteri di Hill 22, che chiamano in causa, in aggiunta ai risultati dei trial, il valore degli studi di osservazione tenendo in debito conto la forza delle associazioni eventualmente osservate, la loro consistenza, la relazione dose-risposta, la plausibilità biologica e la coerenza con i dati derivanti da studi di laboratorio e su modelli animali. Nel caso della carenza di vitamina D, l’analisi critica di tutti questi fattori depone a favore di una relazione causale con gli outcome cardiovascolari esaminati e di questo non è ragionevole non tener conto, soprattutto alla luce della raggiunta consapevolezza della grande difficoltà economica e pratica di progettare in futuro altri trial d’intervento che superino i limiti metodologici di quelli già disponibili.

La terza e conclusiva considerazione riguarda la condotta pratica da seguire da parte del medico alla luce di quanto discusso sopra e delle conoscenze attuali. Laddove è evidente che la supplementazione di vitamina D non è da prendere in considerazione a prescindere dalla valutazione del suo stato nutrizionale, essendosi rivelata inefficace per gli outcome considerati in soggetti già vitamina D-repleti, le conoscenze attualmente disponibili suggeriscono la necessità di valutare l’esistenza o meno di una situazione carenziale di vitamina D, quanto meno in quella parte della popolazione che è a maggior rischio di carenza (soggetti anziani, specialmente se costretti a casa o ricoverati presso case di riposo e comunque tutti coloro che trascorrono poco tempo all’aria aperta), anche in relazione a condizioni morbose croniche, cardiovascolari, oncologiche o di altro tipo. In tutti questi soggetti, in caso di documentata carenza di vitamina D, cioè 25(OH)D < 20 ng/mL o 50 nmol/L o anche in una condizione di marcata insufficienza, è opportuno procedere a una supplementazione tenendo conto dei risultati della recente analisi di Zittermann et al., che ha documentato < 20 ng/mL o 50 nmol/L L o anche in una condizione di marcata insufficienza, è opportuno procedere a una supplementazione tenendo conto dei risultati della recente analisi di Zittermann et al., che ha documentato l’insussistenza del rischio di effetti avversi almeno fino alla dose di 4.000 UI/die 21. Naturalmente l’indicazione alla supplementazione permane valida in particolare per i pazienti con osteoporosi documentata che necessiti di trattamento con bifosfonati e anche dei pazienti osteopenici che non riescano ad attingere valori normali della vitamina attraverso la sola alimentazione e l’esposizione ai raggi solari.

 

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