Medicina di Famiglia e Specialistica
Ortopedia

La Sindrome Algodistrofica: epidemiologia e diagnosi differenziale

2 Ott 2024

Prof. Massimo Varenna

Direttore UOC Osteoporosi e Malattie Metaboliche dell’Osso, ASST Gaetano Pini-CTO, Milano

Il corretto inquadramento della Sindrome Algodistrofica, malattia dolorosa, caratterizzata da sintomi e segni mutevoli e spesso non diagnosticata o diagnosticata tardivamente, rappresenta ancora oggi una sfida impegnativa per i medici e per gli specialisti. Il seguente ciclo, articolato in due uscite, focalizza l’attenzione su alcuni aspetti essenziali relativi a tale patologia, in particolare su epidemiologia e diagnosi differenziale e sulla farmacoterapia, con uno sguardo ai passi già compiuti e alla situazione attuale.

In questa prima uscita, il prof. Massimo Varenna propone una riflessione sugli aspetti epidemiologici della malattia e sulle difficoltà che i medici possono incontrare nel percorso diagnostico.

 

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L’epidemiologia

Delimitare con accuratezza i reali confini epidemiologici della malattia algodistrofica non è impresa agevole. Ciò è in gran parte dovuto alle peculiarità della malattia stessa che, per alcune sue caratteristiche intrinseche, rende difficoltosa l’acquisizione delle conoscenze indispensabili per un suo corretto inquadramento. Pur essendo assai distante in termini di incidenza assoluta da quelle che sono le definizioni di “malattia rara”, la Sindrome Algodistrofica (SA) o, come la letteratura internazionale oggi la definisce, Complex Regional Pain Syndrome, non è una malattia frequente, anche se i pochissimi studi dotati di un adeguato disegno a tal riguardo (prospettici sulla popolazione generale) ne indicano un’incidenza pari a 26 nuovi casi/anno su 100.0001, quindi tutt’altro che “rara”. In secondo luogo, sia per gli eventi connessi alla sua comparsa, sia soprattutto per i sintomi e segni mutevoli nel decorso, la SA è una malattia che trova in diversi specialisti il proprio riferimento. Sarà l’ortopedico, che gestisce l’evento traumatico che nella grande maggioranza dei casi rappresenta l’innesco di malattia (Tab. 1), o il reumatologo, spesso chiamato in causa dalle manifestazioni flogistiche tipiche della patologia al suo esordio, a gestire la malattia nelle sue fasi iniziali. L’algologo e il neurologo sono viceversa le figure coinvolte dalla malattia in fase cronica, quando le manifestazioni flogistiche tendono a recedere e subentrano dinamiche patogenetiche nocipatiche. Ciò giustifica i risultati spesso contraddittori sulla base delle influenze derivanti dall’ambiente specialistico degli studi monocentrici.

Se a tali problematiche aggiungiamo la dispersione di criteri diagnostici condivisi, qual era la situazione sino a circa un decennio fa, non devono stupire le notevoli disparità che si incontrano nel traguardare le caratteristiche epidemiologiche della SA, in particolare quelle riferibili agli eventi predisponenti la malattia. A tal proposito, basti pensare alla disparità con la quale la SA viene riportata a seguito dell’evento clinico più frequentemente connesso con la malattia, ovvero la frattura del radio distale (frattura di Colles), che nella letteratura viene segnalata con un’incidenza che varia dall’1 al 37% (Fig. 1).

Con questi limiti è comunque possibile affermare che l’innesco della malattia algodistrofica è rappresentato in circa i 4/5 dei casi da un evento traumatico2, sia esso in grado di generare una frattura, sia viceversa legato ad un trauma a seguito del quale la frattura non viene evidenziata radiologicamente o a un traumatismo generato da un intervento chirurgico. Sulla base dell’ipotesi che il tessuto osseo giochi un ruolo fondamentale nell’innesco e nell’induzione delle prime fasi di malattia3, la contusione, l’evento distorsivo, il trauma da schiacciamento, così come il microtraumatismo reiterato (localizzazioni al piede/caviglia) possono essere equiparati al trauma fratturativo, generando per il tramite di microfratture il processo flogistico locale. Uno dei pochi studi prospettici condotti ha fornito informazioni circa le caratteristiche cliniche delle fratture più frequentemente in grado di generare una SA e cioè le fratture intra-articolari o quelle con un’ampia dislocazione dei monconi4. Lo stesso studio ha fornito inoltre interessanti spunti che consentono di rivalutare criticamente alcuni riscontri epidemiologici considerati finora come definitivamente acquisiti. Classicamente la SA viene descritta come una patologia che interessa più frequentemente il sesso femminile, con un rapporto di 3/1, e la decade dai 50 ai 60 anni1. Il dato che la frattura di Colles esita in una SA con un’incidenza analoga in entrambi i sessi potrebbe viceversa rendere conto dell’eccesso di casi nel sesso femminile nella decade dopo la menopausa. Il riscontro epidemiologico che tale frattura presenta un picco di incidenza nel sesso femminile e negli anni successivi alla menopausa, con un rischio relativo in tale fascia di popolazione del 15%5, potrebbe trascinare il dato epidemiologico della SA, configurandolo quale evento accessorio all’eccesso di casi di frattura del radio distale in tale fascia della popolazione.

Un ulteriore aspetto epidemiologico meritevole di nota può essere il ridimensionamento delle segnalazioni di un’associazione tra SA e alcune patologie in passato considerate eventi predisponenti la malattia, quali le sindromi ictali, tipicamente quelle connesse a esiti emiparetici (sindrome di Babinski-Froment o “paralisi simpatetica”), e l’infarto del miocardio (sclerodattilia postinfartuale). Epicriticamente, la cospicua riduzione numerica di tali forme potrebbe verosimilmente essere interpretata alla luce di una strategia riabilitativa molto più precoce, in grado di evitare l’immobilità prolungata di tali pazienti. Si verrebbe in questo modo a prevenire i disturbi locali del microcircolo in grado di innescare i fenomeni di neuroflogosi e la conseguente comparsa di una SA.

Come ultima annotazione d’ordine epidemiologico, vanno riportate le patologie che, per il tramite di studi dotati di un adeguato disegno sperimentale, hanno dimostrato di possedere un’associazione statisticamente significativa con un aumento dell’incidenza della SA. Oltre all’osteoporosi – come in precedenza riportato – l’emicrania e l’asma6, così come l’artrite reumatoide4, rappresentano delle patologie la cui presenza sembra determinare un aumento di incidenza della SA.

La diagnosi differenziale 

La pertinenza specialistica trasversale, l’assenza di riscontri di laboratorio, una sensibilità e specificità delle metodiche diagnostiche strumentali non assolute e, infine, una malattia proteiforme nel suo decorso clinico rendono non raramente il percorso diagnostico della SA un cammino accidentato, ritardandone la diagnosi e, di conseguenza, riducendo le possibilità di un intervento terapeutico realmente efficace. A dimostrazione di ciò, basterebbe riportare quello che è il ritardo diagnostico segnalato in uno dei pochi studi prospettici condotti, che riporta un intervallo di tempo tra esordio clinico e diagnosi che nella media è di quasi 4 mesi2. Incidentalmente, lo stesso studio segnala un ritardo diagnostico superiore per la localizzazione al piede rispetto alla mano, verosimilmente perché a tale livello può diventare più difficoltosa la diagnosi differenziale con le conseguenze cliniche dell’evento traumatico che ha generato la SA (frattura, distorsione). I criteri diagnostici oggi universalmente accettati e ratificati dalle società scientifiche7 (Tab. 2) prevedono che la diagnosi di SA riposi esclusivamente sul dato clinico, ovvero sul censimento dei sintomi e segni specifici di tale malattia. Ciò rende indispensabile da parte del clinico un’accurata semeiotica fisico-clinica, al fine di equipararsi agli standard di sensibilità e di specificità che tali criteri hanno dimostrato di possedere in condizioni ottimali8.

Tale approccio consentirebbe non solo di abbreviare il ritardo diagnostico, ma soprattutto di riconoscere la malattia, differenziandola da tutta una serie di altre patologie che in qualche modo sono in grado di generare quadri clinici che, per alcuni aspetti, possono simulare una malattia algodistrofica (Tab. 3). A tal riguardo, è proprio una caratteristica peculiare della SA, ovvero la normalità dei riscontri laboratoristici di routine, a fornire una preziosa chiave in termini di diagnosi differenziale. La normalità degli indici infiammatori, a fronte di quadri clinici di SA che talvolta presentano imponenti quadri di flogosi locale, può fornire al clinico un prezioso supporto nel percorso diagnostico. Patologie artritiche o comunque “reumatologiche” in senso lato, quali ad esempio alcune affezioni vasculitiche così come altre patologie circolatorie, mostrano dati di laboratorio che consentono una diagnosi differenziale nei confronti di una SA.

Un discorso più articolato merita il ruolo diagnostico rivestito dalle metodiche strumentali. I criteri diagnostici più sopra citati non prevedono alcun tipo di riscontro strumentale né a supporto, né a conferma della diagnosi di SA. Tale posizione è in qualche misura avvallata dalla cinetica con cui le diverse metodiche offrono riscontri utili al processo diagnostico (Fig. 2), con alcune di queste precocemente positive, ma con una successiva perdita di sensibilità con il protrarsi della malattia. Viceversa, altre mostrano una latenza di settimane/mesi prima di mostrare dei reperti utili alla conferma diagnostica.

Con tali limiti, storicamente l’immagine di una “osteoporosi maculata” già descritta da Paul Sudeck in una delle prime descrizioni della malattia9 è stata per decenni considerata un riscontro fondamentale per porre una diagnosi di SA. Tutto ciò a prescindere che tale quadro radiologico non sia né precoce, né tantomeno presente nella totalità dei pazienti. La scintigrafia ossea può viceversa rappresentare un utile strumento nella mani del clinico. Possiede infatti elevati livelli di sensibilità nelle fasi precoci di malattia10, con delle percentuali che tuttavia si ridimensionano con il trascorrere delle settimane dall’esordio. Il valore aggiunto è rappresentato dalle possibili indicazioni terapeutiche che tale esame può fornire, segnatamente circa l’impiego dei bifosfonati quando l’esame mostra la presenza di un’ipercaptazione locale del radiotracciante.

Allo stato attuale, le maggiori problematiche circa un corretto inquadramento diagnostico della malattia sono paradossalmente legate all’ampia diffusione che la Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) ha conosciuto negli ultimi anni nella diagnostica dell’apparato locomotore. A tal riguardo, è evento tutt’altro che raro imbattersi in una malaugurata disinformazione del refertatore, che fa collimare il riscontro di un alterato segnale definito “edema midollare osseo” con la diagnosi di SA, dimenticando che tale riscontro è un comune denominatore di numerose patologie (Tab. 4). Poiché in ultima analisi tale segnale testimonia unicamente un aumento della concentrazione protonica a livello midollare secondario ad un processo sostitutivo del tessuto fisiologicamente presente a tale livello, in svariate situazioni cliniche e a prescindere dalla tipologia del tessuto infiltrante la RMN fornisce il medesimo riscontro. È sufficiente scorrere l’elenco delle affezioni che, quando indagate con la RMN, possono caratterizzarsi per la presenza di un “edema midollare osseo” per rendersi conto di come l’assimilazione di tale riscontro con la SA possa rappresentare un gravissimo errore diagnostico nei confronti di altre patologie, segnatamente quelle neoplastiche o infettive, che in ragione delle loro potenzialità evolutive richiedono al radiologo una lettura diagnostica più rapida ed accurata possibile.

Bibliografia

  1. de Mos M, de Bruijn AG, Huygen FJ, et al. The incidence of complex regional pain syndrome: a population-based study. Pain 2007;129:12-20. https://doi.org/10.1016/j.pain.2006.09.008
  2. Varenna M, Crotti C, Ughi N, et al. Determinants of diagnostic delay in Complex Regional Pain Syndrome Type 1. An observational study of 180 consecutive new cases. J Clin Rheumatol 2021;27:e491-e495. https://doi.org/10.1097/RHU.0000000000001558
  3. Varenna M, Crotti C. Bisphosphonates in the treatment of complex regional pain syndrome: is bone the main player at early stage of the disease? Rheumatol Int 2018;38:1959-1962. https://doi.org/10.1007/s00296-018-4101-6
  4. Beerthuizen A, Stronks DL, Van’t Spijker A, et al. Demographic and medical parameters in the development of complex regional pain syndrome type 1 (CRPS1): prospective study on 596 patients with a fracture. Pain 2012;153:1187-1192. https://doi.org/10.1016/j.pain.2012.01.026
  5. Handoll HH, Elliott J. Rehabilitation for distal radial fractures in adults. Cochrane Database Syst Rev 2015;2015:CD003324. https://doi.org/10.1002/14651858.CD003324.pub3
  6. de Mos M, Huygen F, Dieleman JP, et al. Medical history and the onset of complex regional pain syndrome (CRPS). Pain 2008;139:458-466. https://doi.org/10.1016/j.pain.2008.07.002
  7. Harden RN, Oaklander AL, Burton AW, et al. Complex regional pain syndrome: practical diagnostic and treatment guidelines, 4th edition. Pain Med 2013;14:180-229. https://doi.org/10.1111/pme.12033
  8. Harden NR, Bruehl S, Perez RSGM, et al. Validation of proposed diagnostic criteria (the “Budapest Criteria”) for Complex Regional Pain Syndrome. Pain 2010;150:268-274. https://doi.org/10.1016/j.pain.2010.04.030
  9. Sudeck P. Über die akute entzündliche Knochenatrophie. Archiv für Klinische Chirurgie 1900.
  10. Lee GW, Weeks PM. The role of bone scintigraphy in diagnosing reflex sympathetic dystrophy. J Hand Surg 1995;20:458-463. https://doi.org/10.1016/S0363-5023(05)80107-8

 

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per approfondimenti: La Sindrome Algodistrofica: la farmacoterapia

 

 

 

 

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