Medicina di Famiglia e Specialistica
COVID-19

Ipotesi sull’origine di Omicron e sua evoluzione

8 Giu 2022

da Rivista Medicina Generale SIMG Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie

Ignazio Grattagliano, Alessandro Rossi, Claudio Cricelli

SIMG

 

Considerazioni tratte dalla lettura analitica di due recenti articoli apparsi su Nature:

  • Callaway E, Beyond Omicron: what’s next for COVID’s viral evolution, 2021; 600: 204-207;
  • Mallapaty S, Where did Omicron come from? Three key theories, 2022; 602: 26-28.

 

Premessa

La questione delle origini di Omicron è di grande importanza non solo per motivi accademici. Capire in quali condizioni è sorta questa variante altamente trasmissibile potrebbe aiutare gli scienziati a comprendere il rischio di nuove varianti emergenti e suggerire misure per ridurlo al minimo. Infatti, nel corso dei progressi in campo scientifico, è lecito porsi questa domanda, in quanto un virus che da solo e in soli due mesi ha contagiato 6 milioni di persone, contro i 4 milioni complessivi del virus selvaggio e delle sue altre varianti in due anni, deve essere studiato in tutti i suoi aspetti. Allo stesso tempo si deve partire dalla considerazione generale che un virus ha bisogno di mutare per rimanere in circolazione e quindi sopravvivere alla risposta immunitaria dell’ospite.

Gli scienziati si ritrovano dunque a discutere su tre teorie possibili che vedono Omicron originare in parti del mondo poco mappate, oppure che supportano plausibili mutazioni all’interno di una persona con una patologia cronica, soprattutto immuno-deprimente; o ancora quella che vede un nuovo passaggio di specie, questa volta forse dai ratti. Se lo chiede anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che prevede di pubblicare un rapporto in tempi brevi.

 

Ipotesi 1: le mutazioni inaspettate

La variante Omicron è stata identificata per la prima volta in Sudafrica e Botswana nel novembre 2021. La datazione della sua prima comparsa, dopo un’analisi del tasso di mutazione genomica, ha mostrato che l’origine della variante poteva essere collocata tra fine settembre e inizio ottobre dello stesso anno. Non è possibile però confermare che il tutto sia iniziato proprio in Sudafrica, a Johannesburg c’è uno degli aeroporti più frequentati del mondo: è perciò possibile che venga da altrove ma sia stato sequenziato lì per primo grazie agli avanzati sistemi di sorveglianza del Paese. Omicron contiene più di 50 mutazioni del virus originale di Wuhan, di cui circa 30 codificano per aminoacidi collocati nella proteina Spike che il virus usa per attaccarsi alle cellule. Nelle varianti precedenti le mutazioni non superano il numero di 10. Omicron ha una presa più forte su ACE-2 rispetto alle varianti viste in precedenza e inoltre è in grado di eludere anche la protezione conferita dal vaccino oppure indotta da guarigione da altra variante. Altri cambiamenti nella proteina Spike sembrano aver modificato il modo in cui Omicron entra nelle cellule: sembra essere meno abile nel fondersi direttamente con la membrana cellulare, e invece tende a entrare dopo essere stato inghiottito in un endosoma (una specie di bolla circondata da lipidi). Oltre una dozzina di mutazioni di Omicron sono estremamente rare: alcune non sono state mai osservate prima, e altre sono apparse ma poi non si sono più ritrovate presumibilmente perché davano al virus fragilità.

Un’altra caratteristica curiosa di Omicron è che, da un punto di vista genomico, è costituito da tre sottolignaggi distinti (chiamati BA.1, BA.2 e BA.3) che sembrano tutti essere emersi all’incirca nello stesso periodo, due dei quali sono decollati a livello globale. Ciò significa che Omicron ha avuto il tempo di diversificare prima che gli scienziati se ne accorgessero.

La sua apparizione improvvisa potrebbe essere compatibile con il fatto che il processo di mutazione si sia verificato in una regione del mondo come l’Africa che ha sequenziamento genomico limitato e con poca testing activity.

 

Ipotesi 2: infezione cronica

Questa seconda ipotesi parte invece dalla considerazione che la variante non abbia avuto il tempo per mutare così tanto e in maniera così importante, nel passaggio da uomo a uomo. Esisterebbe dunque un “incubatore alternativo” che spiegherebbe un’evoluzione rapidissima del virus e questo potrebbe essere una persona con un’infezione cronica immuno-deprimente. All’interno di un organismo già compromesso il virus può continuare a replicarsi per settimane e addirittura mesi, producendo moltissime alternative per schivare il sistema immunitario.

Un caso clinico del dicembre 2020 descriveva un uomo di 45 anni con un’infezione persistente. Durante la presenza per quasi cinque mesi nel suo ospite, SARS-CoV-2 aveva accumulato quasi una dozzina di cambiamenti di aminoacidi nella sua proteina Spike. Alcuni ricercatori suggeriscono che anche Alpha è emerso in qualche individuo con un’infezione cronica, perché, come Omicron, sembra aver accumula to cambiamenti a un ritmo accelerato. Tra l’altro, in questi soggetti le cure sono meno efficaci e quindi è possibile che un paziente con malattia cronica abbia potuto fungere da incubatore per queste mutazioni. In tale situazione il virus continua a riprodursi in un singolo organismo e inizia a ingaggiare una specie di duello con il sistema immunitario e sviluppa tante variazioni fino a produrne una resistente.

Se questo è il caso, significa che il virus dovrebbe replicarsi sufficientemente in una persona per esplorare gli effetti che le combinazioni di mutazioni richiederebbero ma in un tempo molto più breve per riuscire a ottenere le stesse attraverso la campionatura delle possibili mutazioni una per una. Tuttavia, raggiungere questo numero di mutazioni richiederebbe alti tassi di replicazione virale per lungo tempo, il che presumibilmente renderebbe quella persona molto malata. In realtà, sembrano essere troppe tutte queste mutazioni per una sola persona. A complicare ulteriormente il quadro ci sono alcune proprietà di Omicron che potrebbero derivare da combinazioni di mutazioni che lavorano insieme. Ad esempio, due mutazioni trovate in Omicron, N501Y e Q498R, aumentano di quasi 20 volte la capacità di una variante di legarsi alla proteina ACE2. La ricerca suggerisce che la dozzina di mutazioni rare in Omicron formano tre cluster separati che sembrano lavorare insieme per compensare gli effetti negativi di ciascuno dei tre.

Una possibilità è che siano stati coinvolti più individui con infezioni croniche, o che l’antenato di Omicron provenisse da qualche individuo con un’infezione cronica importante e che poi abbia trascorso un po’ di tempo nella popolazione generale prima di essere rilevato.

 

Ipotesi 3: la zoonosi inversa topi e ratti

Alcuni scienziati pensano che la diffusione da persona a persona non sarebbe sufficiente a generare una tale quantità di mutazioni in un così breve tempo (un anno e mezzo). Ecco la base per l’ultima ma molto discussa ipotesi che riporta il virus negli animali che si possono infettare: leopardi, iene, ippopotami, gatti, visoni e furetti. Una delle mutazioni, la N501Y-Q498R, è particolarmente ricettiva per i ratti e i roditori. Omicron, tra l’altro, ha molti punti in comune con altri coronavirus che si sono evoluti nei topi, mentre ne mostra molti meno con quelli di origine umana. Dunque, il salto di specie da persona a ratto potrebbe essere accaduto anche tramite liquidi fognari. Poi un ratto infetto potrebbe essere venuto in contatto con un essere umano e aver scatenato l’emergere di Omicron.

Altri ricercatori dicono che anche un singolo salto virale da un animale a una persona è un evento raro e che invece il virus ha avuto molte opportunità di passare da individuo a individuo. E sebbene alcune delle mutazioni di Omicron siano state osservate nei roditori, ciò non significa che non possano accadere o non si siano verificate anche nelle persone e che invece siano semplicemente mancate le osservazioni.

Ognuna di queste teorie è verosimile ed è legata agli studiosi che le perseguono e tentano di dimostrarla. Mancano, però, dati robusti a sostegno di ciascuna. In realtà la prima teoria non esclude la combinazione con le altre due. Solo il sequenziamento genetico potrà permettere di identificare l’anello mancante e di farci trovare più pronti all’arrivo di una prossima variante.

 

Aver lasciato larghe aree di mondo senza la protezione dei vaccini e senza il controllo dei genomi virali non è stata una strategia vincente. È proprio qui che il virus prolifera e su questo gli esperti ci avevano avvertito.

 

Oltre Omicron: cosa c’è in serbo per l’evoluzione del virus

La rapida diffusione di nuove varianti offre indizi su come SARS-CoV-2 si stia adattando e su come si svilupperà la pandemia nei prossimi mesi diventando una virosi endemica come lo sono gli altri quattro coronavirus stagionali che causano raffreddori relativamente lievi e circolano negli esseri umani da decenni. Poco si sa su come questi altri virus continuino a prosperare.

A tale scopo è stato studiato di recente un coronavirus stagionale chiamato 229E che infetta le persone ripetutamente per tutta la vita. Studiando campioni di sangue vecchi di decenni ottenuti da persone probabilmente esposte a 229E, sono stati analizzati gli anticorpi contro diverse versioni del virus risalenti al 1980. I risultati indicano che i campioni di sangue degli anni ’80 contenevano alti livelli di anticorpi che bloccano le infezioni contro una versione del 1984 di 229E, ma avevano molta meno capacità di neutralizzare una versione del virus del 1990. Erano ancora meno efficaci contro le varianti degli anni 2000 e 2010. Lo stesso valeva per i campioni di sangue degli anni ’90: le persone avevano l’immunità ai virus del recente passato, ma non a quelli del futuro, suggerendo che il virus si stava evolvendo per eludere l’immunità.

Varianti come Omicron e Delta contengono mutazioni che attenuano la potenza degli anticorpi prodotti contro le versioni precedenti di SARS-CoV-2. Il modo in cui SARSCoV-2 si evolverà nei prossimi mesi e anni determinerà come sarà la fine di questa crisi globale, se il virus si trasformerà in un altro comune raffreddore o in qualcosa di più minaccioso come l’influenza o peggio. L’effetto della vaccinazione di massa e delle restrizioni sta però spostando il panorama evolutivo e non è chiaro come il virus affronterà questa sfida.

Gli scienziati che studiano l’evoluzione di SARS-CoV-2 stanno seguendo due diversi aspetti nel cambiamento del virus: uno che lo rende più infettivo o trasmissibile permettendogli una replicazione più rapida in modo che si diffonda più facilmente attraverso tosse e starnuti; l’altro che gli consente di superare la risposta immunitaria di un ospite. In tutto questo occorre ricordare che la maggior parte delle modifiche probabilmente riduce la trasmissibilità del virus. Facendo un passo indietro, le prime tre varianti importanti (alpha, beta e gamma) condividono alcune mutazioni, in particolare nelle regioni chiave della proteina Spike coinvolte nel riconoscimento dei recettori ACE2 che il virus utilizza per entrare nelle cellule. Contenevano mutazioni simili o identiche a quelle individuate in SARS-CoV-2 isolato da persone con sistema immunitario compromesso le cui infezioni sono durate per mesi. Ciò ha portato i ricercatori a ipotizzare che le infezioni croniche potrebbero consentire al virus di esplorare diverse combinazioni di mutazioni fino a trovare quelle che hanno successo. Le infezioni tipiche che durano pochi giorni offrono meno opportunità in questo senso. Eventi di super-diffusione, in cui un gran numero di persone sono infette, potrebbero anche spiegare perché alcune varianti si sono affermate mentre altre sono svanite. Qualunque fossero le loro origini, tutte e tre le varianti considerate sono state più infettive del ceppo selvaggio. Ma Beta e Gamma contenevano anche mutazioni che attenuavano la potenza degli anticorpi “neutralizzanti” innescati da precedenti infezioni o vaccinazioni.

Molti ricercatori si aspettavano che un discendente di Alpha avrebbe raccolto ulteriori mutazioni per sfuggire alle risposte immunitarie, per renderlo ancora più virulento. E invece arriva la variante Delta che si diffonde rapidamente con indici di circa 60% più alti rispetto ad Alpha, rendendola molte volte più infettiva dei primi ceppi circolanti di SARS-CoV-2.

Secondo il parere di illustri biologi evoluzionisti, in generale un virus deve bilanciare la sua capacità di replicarsi ad alti livelli nelle vie aeree delle persone con la necessità di mantenerle abbastanza sane da infettare nuovi ospiti. Il virus non ha interesse a mettere qualcuno a letto e farlo ammalare in maniera abbastanza grave da non permettergli di incontrare un certo numero di altre persone. Il virus ha necessità di diffondersi! Un modo per il virus sarebbe quello di evolversi per moltiplicarsi nelle vie aeree inferiori, mantenendo così le infezioni per un periodo di tempo più lungo, aumentando il numero di nuovi possibili ospiti esposti al virus. Alla fine, probabilmente si arriverà a un compromesso tra la quantità di virus che si può riprodurre e la velocità con cui reagisce il sistema immunitario. L’interesse del virus è che ci siano sempre potenziali ospiti e non quello di eliminarli tutti in quanto alla fine della corsa non ci sarebbe più alcuna chance di sopravvivenza nemmeno per lui. La realtà è pertanto molto più complessa da interpretare.

Eludere le risposte immunitarie come gli anticorpi potrebbe anche comportare importanti problemi al virus. Una mutazione di Spike che schivi gli anticorpi potrebbe ridurre la capacità del virus di riconoscere e legarsi alle cellule ospiti. La regione di Spike che lega i recettori è relativamente piccola, e potrebbe non essere in grado di tollerare così tanti cambiamenti e contemporaneamente svolgere ancora il suo compito principale di attaccarsi ai recettori ACE2 delle cellule ospiti.

In realtà, SARS-CoV-2 potrebbe essere intrinsecamente migliore rispetto ad altri virus nell’evoluzione adattativa del suo genoma. È un virus a RNA, e in quanto tale acquisisce mutazioni più rapidamente rispetto a quelli a DNA e si trasmette più rapidamente. In media il morbillo necessita di 11-12 giorni tra il momento in cui infetta un individuo e quello in cui l’individuo diventa contagioso, mentre a Omicron bastano 1.5-3 giorni. Ogni volta che il virus infetta un individuo si replica miliardi di volte. Più cresce il numero di persone da infettare e maggiore è la probabilità adattativa del virus.

 

I possibili scenari dell’endemia

La capacità intrinseca di un virus di diffondersi in una popolazione immunologicamente vergine (cioè non vaccinata, né già infettata dal virus in precedenza) si misura con un numero detto R0, che indica quante persone in media sono contagiate da un soggetto infetto. Dall’inizio della pandemia questo dato è arrivato addirittura a triplicarsi. Nella variante Delta il numero R0 è maggiore rispetto ai coronavirus stagionali e all’influenza, ma resta inferiore rispetto ai virus di polio e morbillo. Infine occorre ricordare che SARS-CoV-2 è un nuovo patogeno e che qualsiasi fosse la sua trasmissibilità intrinseca, il contagio non ha incontrato alcuna immunità pregressa nel momento in cui ha colpito la popolazione umana. È per questo che è stato capace d’infettare gran parte del mondo in due anni, colpendo un numero di persone di gran lunga maggiore rispetto ai vecchi virus.

Il futuro più auspicabile, ma forse il meno probabile, sarebbe quello che il virus segua il percorso del morbillo in cui il contagio o il vaccino danno una protezione a vita e il virus circola per lo più grazie ai neonati, e anche se incapace di evolversi per eludere l’immunità, è ancora in circolazione.

Tra le altre ipotesi sulle evoluzioni possibili è da includere quella che rassomiglierebbe all’infezione da virus respiratorio sinciziale in cui la maggior parte delle persone viene infettata nei primi due anni di vita. Nel caso di questa infezione, l’immunità calante e l’evoluzione virale insieme consentono a nuovi ceppi di RSV di spazzare il pianeta ogni anno, infettando gli adulti in gran numero, ma con sintomi lievi grazie all’esposizione infantile. Se SARS-CoV-2 segue questo percorso diventerà essenzialmente un virus dei bambini. L’influenza offre invece un altro scenario, in realtà due. Il virus dell’influenza A, che determina ogni anno le epidemie globali di influenza stagionale, è caratterizzato dalla rapida evoluzione e diffusione di nuove varianti in grado di sfuggire all’immunità suscitata dai ceppi passati. Il risultato sono epidemie stagionali con ampia diffusione tra gli adulti che possono ancora sviluppare sintomi gravi. I vaccini antinfluenzali riducono la gravità della malattia e rallentano la trasmissione, ma la rapida evoluzione dell’influenza A indica che i vaccini non sono sempre ben abbinati ai ceppi circolanti. Se invece SARS-CoV-2 si evolve per eludere l’immunità in modo più lento, potrebbe arrivare ad assomigliare all’influenza B. Il tasso di cambiamento più lento di quel virus, rispetto all’influenza A, significa che la sua trasmissione è guidata in gran parte dalle infezioni nei bambini, che hanno meno immunità rispetto agli adulti. Ora che Omicron si è diffuso dovunque, il modo in cui si evolve nelle persone potrebbe offrire ulteriori indizi sulle sue origini.

Potrebbe, ad esempio, eliminare mutazioni che, in retrospettiva, lo hanno aiutato ad adattarsi a un ospite animale diverso o in una persona con un’infezione cronica.

È infine possibile che l’origine di Omicron non venga mai scoperta; tuttavia la velocità con cui SARS-CoV-2 si evolve in risposta all’immunità determinerà anche con quale frequenza i vaccini devono essere aggiornati. Se la circolazione continuasse anche nei bacini animali, differenze sorprendenti, come la fuga immunitaria o l’aumento della gravità di malattia, non saranno del tutto scongiurati.

 

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