Medicina di Famiglia e Specialistica
COVID-19

Disabilità e riabilitazione nei pazienti reduci da COVID-19

24 Mag 2022

intervista al professor Enrico Clini, Università di Modena e Reggio Emilia

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 1. Cosa è la sindrome long-COVID e chi colpisce?

Si tratta di una condizione di persistenza a lungo temine di sintomi collegati a disfunzione e anomalie post-infiammatorie in vari distretti e organi come conseguenza del contagio e della successiva malattia COVID-19. Tecnicamente il termine long-COVID si riferisce alla persistenza dei disturbi caratterizzanti oltre la 12a settimana dal contagio, periodo all’interno del quale la sindrome prende il nome di PACS (Post-Acute COVID syndrome). Da un punto di vista epidemiologico PACS colpisce circa il 20% dei pazienti, mentre long-COVID si manifesta in 1 caso su 10 circa, con più probabilità in quei soggetti che a causa di infezione hanno dovuto subire un ricovero ospedaliero.

 

2. Quali sono i sintomi che prevalgono in questi pazienti? Esistono differenze in queste caratteristiche nel corso dei due anni di epidemia?

La sindrome long-COVID riguarda un insieme di sintomi che per lo più si presentano associati fra di loro e, per la natura sistemica della patologia in fase acuta, coinvolgono apparati differenti. In ordine di prevalenza i disturbi più comuni sono la dispnea, il senso di affaticamento e spossatezza, la perdita di attenzione e memoria. In maniera molto tipica questi sintomi tendono a clusterizzare (pattern respiratorio, cognitivo, muscolare, cardiovascolare), per presentarsi quindi con un impatto e una prevalenza maggiori in alcuni individui rispetto ad altri. In generale, si è osservato che l’intensità dei disturbi tende tanto più a ridursi (o scomparire) quanto più ci si allontana dalla fase acuta. Portata e prevalenza dei sintomi noti e persistenti che hanno seguito i contagi e le malattie delle prime ondate epidemiche sembrano essere più attenuati in riferimento alle ondate più recenti.

 

3. Quanto è rilevante il problema respiratorio nei pazienti reduci da COVID-19?

Poiché il coinvolgimento polmonare si è rivelato essere un aspetto molto importante nella risposta infiammatoria sistemica che segue il contagio virale da SARS-CoV-2, i sintomi respiratori hanno sempre e non a caso avuto una rilevanza maggiore anche nella fase long-COVID. Anche in questo caso vale la regola che nel tempo l’incidenza dei disturbi tende ad attenuarsi; tuttavia si possono manifestare persistenti danni anatomo-funzionali di tipo respiratorio fino a circa il 20% dei casi, specie tra quelli che hanno dovuto ricorrere a cure ospedaliere e di tipo intensivo in particolare. Ad oggi, mancano ancora studi di sorveglianza sulla prevalenza di questi disturbi in un arco di tempo che superi i 12-15 mesi dal contagio.

 

4. Esistono modelli efficaci di riabilitazione per questi pazienti?

L’impatto di COVID-19 sulla disabilità individuale si è manifestato chiaramente nella malattia in fase acuta e post-acuta, indentificando perciò la riabilitazione e la fisioterapia come un modello di cura di supporto molto importante, specie nei pazienti ospedalizzati. L’impatto dei sintomi nel long-COVID sulla disabilità individuale è molto variabile e dipende dai distretti coinvolti. Allo stesso modo non sono definitivamente chiariti i programmi più adeguati di tipo riabilitativo che possano essere univocamente utilizzati in questa fase.

 

5. Di cosa dovrà principalmente occuparsi la ricerca clinica sul long-COVID nel prossimo futuro?

Nonostante la fiorente produzione scientifica degli ultimi 12-18 mesi, ancora poco si sa su COVID-19 e soprattutto sulla patogenesi delle conseguenze a lungo termine di questa malattia sistemica. La ricerca è pertanto volta a identificare degli ambiti specifici entro cui delineare l’impatto della malattia nell’individuo e la persistenza o insorgenza di un danno. In particolare sarà importante definire il rischio di trombosi, coagulopatie e cardiopatie a lungo termine, identificare i fattori che possono predire la neo-insorgenza di malattie respiratorie o delle vie aeree (ad esempio asma bronchiale) prima non riportate dal paziente, valutare la prevalenza della sindrome long-COVID in pazienti già portatori di patologie croniche, stabilire infine l’utilità di nuovi modelli di cura anche non farmacologica, come la riabilitazione per il ripristino di una qualità di vita normale o quantomeno antecedente la malattia.

 

 

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