Medicina di Famiglia e Specialistica
Nutrizione

Effetti benefici attesi della dieta chetogenica nel diabete mellito tipo 2 in rapporto alle modifiche nella composizione del microbiota intestinale

7 Giu 2022

da Attualità in Dietetica e Nutrizione Clinica rivista ufficiale della Fondazione ADI

Marta Veneziano1, Mauro Rossini1, Annalisa Maria Valeria Pipicelli 2, Manon Yeganeh Khazrai3, Giulia Brucoli1, Felice Strollo4  per il Gruppo di Studio AMD-SID-SIEDP Regione Lazio sullo Stile di Vita

1 UOC Diabetologia e Dietologia, ASL Roma1, Roma; 2 UOC di Nefrologia, Dialisi e Trapianto, Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma; 3 Corso di Laurea Magistrale in Scienze dell’Alimentazione e della Nutrizione Umana, Università Campus Bio-Medico, Roma; 4 Servizio di Endocrinologia, IRCCS San Raffaele Pisana, Roma

 

Introduzione 

L’epidemia mondiale dell’obesità e del diabete mellito tipo 2 (DMT2) rappresenta un reale problema di sanità pubblica, anche nei paesi in via di sviluppo. L’incremento del tessuto adiposo, inoltre, è uno dei fattori di rischio più rilevanti per diverse patologie croniche. Il DMT2 è una malattia metabolica e multifattoriale caratterizzata da uno squilibro nei livelli circolanti di glucosio e da un’alterazione del profilo lipidico, che portano inizialmente ad una condizione di insulino-resistenza dapprima compensata da livelli insulinemici elevati, poi ad una progressiva carenza insulinica. La riduzione ed il controllo del peso corporeo costituiscono un fattore determinante nel trattamento e nella gestione del paziente affetto da DMT2. Negli ultimi anni lo scopo principale dei ricercatori è stato quello di identificare un nuovo approccio terapeutico funzionale per i soggetti obesi affetti dalla malattia e, in questo contesto, la very low-calorie ketogenic diet (VLCKD) potrebbe rappresentare un’effettiva strategia di intervento. La VLCKD è un regime dietetico ipocalorico caratterizzato da un ridotto apporto quotidiano di grassi e carboidrati in presenza di un’assunzione proteica inalterata. Le evidenze presenti in letteratura mostrano come tale regime dietetico possa potenziare e migliorare la biodiversità del microbiota intestinale, un complesso ecosistema costituito da miliardi di cellule microbiche simbiotiche corrispondenti a diversi tipi di virus, funghi e batteri. Il microbiota intestinale svolge un ruolo determinante per la salute umana, agendo come barriera contro i patogeni e stimolando lo sviluppo e il buon funzionamento del sistema immunitario. Ad oggi sono stati descritti più di 50 fila batterici, i principali sono Firmicutes (Gram+), Bacteriodes (Gram-), Proteobacteria (Gram-) e Actinobacteria (Gram+). La composizione del microbiota non è stabile, e può essere alterata in modo più o meno sostanziale dai fattori ambientali, dalla dieta, dalle infezioni o, ancora, dall’utilizzo di farmaci. Tali alterazioni possono portare ad uno squilibrio nella composizione microbica e diversi studi hanno evidenziato come tale squilibrio, se persistente e protratto, potrebbe essere correlato allo sviluppo di diverse patologie acute e croniche. Le abitudini alimentari sono strettamente connesse alla composizione del microbiota, e la quantità e la qualità dei macronutrienti provenienti dalla dieta risultano essere determinanti. Una delle strategie per modulare il microbiota è, ad esempio, il consumo di fibre provenienti da fonti alimentari. Una dieta ricca di vegetali e di frutta di stagione, fonti di fibra solubile e insolubile, può migliorare la diversità della composizione microbica. L’assunzione di fibra alimentare, inoltre, potrebbe potenziare la produzione di acidi grassi a catena corta (SCFA), i quali sono in grado di metabolizzare i carboidrati complessi e sono determinanti per il mantenimento delle funzioni intestinali di barriera. È da sottolineare che l’apporto di fibra proveniente da fonti alimentari è generalmente diminuito negli ultimi anni. Oltre all’assunzione di fibra esistono, però, diverse modalità per modulare la composizione del microbiota: a tale proposito la presente disamina della letteratura si propone soprattutto di analizzare l’impatto della VLCKD sulla composizione del microbiota intestinale attraverso le modifiche che questa comporta sul metabolismo lipidico e proteico, in funzione dell’auspicato miglioramento dell’equilibrio metabolico globale delle persone con DMT2. 

 

Very low-calorie ketogenic diet e diabete mellito

L’alta concentrazione di corpi chetonici tipica della chetoacidosi diabetica, causa di aumento di comorbidità e mortalità in pazienti affetti da tale condizione, è stata per molto tempo fonte di grande preoccupazione per la maggior parte dei medici, in qualche modo limitando l’interesse di questi ultimi all’adozione di una VLCKD come possibile terapia per i loro pazienti diabetici obesi. È stato inoltre ipotizzato che regimi a base di VLCKD siano responsabili di un innalzamento dei livelli circolanti di colesterolo in alcuni pazienti, senza però alcuna reale attenzione alla presenza o meno di una predisposizione familiare all’iperlipidemia e senza una chiara evidenza clinica. Pertanto, alcuni autori propongono di adottare ancora un approccio in tal senso basato sulla prudenza. Le controindicazioni proposte dalle società scientifiche potrebbero rappresentare un ostacolo per pazienti che potrebbero trarre benefici da una VLCKD 1, tanto che, secondo un recente articolo basato sulle evidenze ad oggi disponibili, i medici che abbiano acquisito particolare esperienza nella materia, basandosi sullo stato dell’arte attuale, possono valutare l’utilizzo della VLCKD come strategia terapeutica nel singolo paziente obeso con DMT2 ad essi affidatosi 2.

Ad ogni modo, va valutato che gli effetti dei corpi chetonici a livello cardiovascolare dipendono dalla concentrazione e dal contesto, perciò, a differenza di quanto avviene in presenza di livelli estremi di corpi chetonici circolanti, concentrazioni di chetoni più basse derivanti da schemi dietetici, sforzi fisici, o da VLCKD condotta sotto controllo medico sembrano mostrare effetti benefici sull’endotelio e sul sistema cardiovascolare. Dati pre-clinici indicano che, in caso di malattie metaboliche, una dieta con restrizione di carboidrati può influenzare positivamente la salute delle isole pancreatiche ma riduce la frequenza dell’alvo e la massa fecale oltre che la concentrazione di Bifidobatteri e, quindi, di butirrato, un metabolita in grado di influenzare la sensibilità insulinica, di innalzare il dispendio energetico e di prevenire la proliferazione di cellule cancerogene nel tumore del colon-retto. Al contrario, le VLCKD migliorano la diversità batterica (a) contrastando i Proteobatteri della famiglia delle Enterobacteriaceae, Sinobacteriaceae e Comamonadaceae, agevolando così la perdita di peso; e (b) favorendo Firmicutes, Ruminococcaceae e Mogibacteriaceae. In tal modo esse si dimostrano un ottimo strumento per ampliare la varietà del microbiota intestinale, specialmente nei casi in cui si sostituiscono alle proteine della carne quelle derivanti dai piselli e dal siero di latte che aumentano la produzione di SCFA, noti per il loro effetto benefico sulla salute intestinale. Nei pazienti affetti da DMT2, grazie al rapido calo di peso accompagnato da una sensazione di sazietà e benessere ed alla maggiore semplicità, un regime di VLCKD della durata di tre mesi associato a un migliorato stile di vita ha garantito migliori risultati in termini di soddisfazione e di aderenza al protocollo rispetto a una dieta ipocalorica con sostituti del pasto 3. Le VLCKD aiutano anche a ripristinare la funzionalità beta-cellulare in fase di iniziale deterioramento, tanto che L’American Diabetes Association (ADA) ha inserito le VLCKD tra i possibili trattamenti terapeutici utili per pazienti obesi affetti da DMT2 4. Gli integratori di simbiotici (Bifidobatteri, Lattobacilli e prebiotici) sono in grado di modulare il microbiota in soggetti sovrappeso e obesi a prescindere dal tipo di alimentazione, aumentando la prevalenza delle specie batteriche benefiche e quindi la produzione di SCFA, tuttavia non è ancora stato sviluppato un protocollo standardizzato che includa i simbiotici durante una VLCKD. Anche se le VLCKD garantiscono numerosi effetti benefici nel breve termine, sono necessari ulteriori studi per comprendere meglio i meccanismi coinvolti nel controllo di senso di fame/sazietà e riduzione di grasso viscerale, così come per comprendere la durata dell’adattamento del microbiota intestinale. A causa del consistente aumento dei casi di DMT2 e obesità, è necessario identificare rapidamente strategie di perdita di peso efficaci. Queste, tuttavia, si basano spesso su regimi dietetici molto restrittivi e, come tali, sono quindi caratterizzate da scarsa efficacia e bassa aderenza. Un marcato miglioramento dei parametri glicemici si ottiene sicuramente con diete a basso apporto calorico (VLCD) e VLCKD che prevedono una restrizione calorica drastica: una meta-analisi che prende in considerazione 13 studi, dimostra infatti un significativo miglioramento nei livelli di glucosio a digiuno e di HbA1c 5. Nella presente analisi il focus è sul DMT2 perché questo è più frequentemente collegato ad una condizione di sovrappeso, ma potrebbe essere interessante per alcuni ricercatori comprendere il ruolo delle VLCKD anche nel diabete tipo 1 (T1DM). L’utilizzo delle diete chetogeniche in pazienti di qualsiasi età affetti da T1DM è ancora in discussione, dal momento che l’efficacia a lungo termine non è stata validata. Sono necessari studi clinici ben strutturati, su larga scala e a lungo termine per valutarne efficacia, sicurezza e aderenza nel tempo, oltre che per identificare la migliore composizione di nutrienti utile a garantire un migliorato controllo metabolico e un’adeguata riduzione del rischio cardiovascolare e del peso corporeo. Uno studio basato su evidenze “real-word” che ha valutato gli effetti a lungo termine di diverse strategie dietetiche per la gestione del DMT2 nella pratica ospedaliera ha confermato i risultati positivi a livello metabolico associati alle VLCKD e ha mostrato una significativa riduzione della necessità di farmaci ipoglicemizzanti e una maggiore aderenza al trattamento 6. Probabilmente la maggiore compliance viene garantita dalla riduzione degli episodi di alimentazione incontrollata e dai più bassi livelli di fame riscontrati durante la chetosi, a fronte di scarsi effetti collaterali, rappresentati, per lo più limitatamente alla prima settimana, da leggera stipsi e sindrome vertiginosa. Pur in presenza di alcuni casi di disidratazione, epatite, pancreatite, ipertrigliceridemia, iperuricemia, ipercolesterolemia, ipomagnesemia e iponatriemia, lo studio in questione ha confermato l’assenza di alterazioni della funzionalità renale ed epatica riportata da altri studi. Gli alimenti e le componenti alimentari che vengono frequentemente aumentate durante le diete chetogeniche “casalinghe” (come carne rossa, carne processata e grassi saturi), sono notoriamente causa di un aumento delle malattie croniche non trasmissibili, tra cui quelle cardiovascolari, cancro, diabete e malattie neurodegenerative al punto che i rischi nella somministrazione di questi approcci alimentari potrebbero superarne i benefici. È stato dimostrato che la quantità e la qualità dei lipidi introdotti con la dieta ha un effetto selettivo sul microbiota intestinale, sia in modelli animali che sull’essere umano. Si pensa che l’adozione di una dieta ricca in grassi per un lungo periodo di tempo deteriori la salute generale alterando l’equilibrio della flora intestinale riducendo la produzione di SCFA ma, in realtà, secondo una recente meta-analisi dopo una VLCKD si ha un miglioramento del profilo lipidico 7. I meccanismi alla base dell’azione a livello metabolico dei grassi, infatti, sono piuttosto intricati: le fonti energetiche utilizzate dalle cellule beta in base alle diverse strategie dietetiche influenzano sia la modulazione della secrezione insulinica sia lo sviluppo del diabete attraverso l’accumulo di grasso nel pancreas, oltre ad impattare sull’integrità mitocondriale e sul metabolismo ossidativo. Le diverse caratteristiche dei grassi alimentari, sembrano perciò essere coinvolte in tale complesso meccanismo di adattamento 8. 

 

Il microbiota intestinale in funzione di regimi alimentari a base di VLCKD

Finora abbiamo trattato esclusivamente degli adattamenti metabolici legati agli effetti delle VLCKD, senza discutere nel dettaglio quanto concerne le modificazioni ad essi associati che intervengono a livello del microbiota intestinale. Le VLCKD inducono una perdita di peso e di grasso viscerale in modo più rapido rispetto alle diete a basso apporto di carboidrati. Dato che la composizione in macronutrienti è in grado di influenzare l’abbondanza e la diversità del microbiota intestinale, le VLCKD potrebbero rappresentare un’eccellente strategia per che desideri migliorare i parametri metabolici anche attraverso i cambiamenti nella composizione batterica delle feci. La fibra alimentare ha un ruolo fondamentale nella produzione degli SCFA che rappresentano la prima fonte di nutrimento per i batteri intestinali ed hanno un ruolo protettivo nei confronti della mucosa enterica. L’integrità di quest’ultima è, infatti, messa a repentaglio dall’aumento del rapporto tra Firmicutes/Bacteroides (F/B) che si osserva tipicamente nei pazienti affetti da obesità e/o diabete, nei quali si associa, tra l’altro, anche ad un aumento dei livelli circolanti di lipopolisaccaride (LPS), un frammento della membrana esterna dei batteri Gram-negativi noto come un’endotossina in grado di indurre una risposta infiammatoria locale e generalizzata. Gli SCFA influenzano anche la regolazione dell’appetito e il fabbisogno energetico interagendo con recettori accoppiati alle proteine G (GPR) -41 e -43 presenti su monociti e linfociti, in grado di stimolare la secrezione di GLP-1 e PYY. Sembra però che anche le proteine, in particolare quelle provenienti dal latte e dalla soia, inducano cambiamenti nella composizione del microbiota intestinale attraverso gli SCFA. Circa il 90% delle proteine alimentari viene metabolizzata nel piccolo intestino. La parte rimanente arriva al colon sotto forma di aminoacidi, alcuni dei quali sono in grado di indurre senso di sazietà attraverso la stimolazione di GLP-1 e PYY e vengono metabolizzati in SCFA dal microbiota, influenzando così essi stessi la diversità batterica intestinale 9. È da sottolineare, però, che un’eventuale ricca disponibilità di carboidrati complessi associata all’apporto di grandi quantità di proteine interferisce, di fatto, con la metabolizzazione di queste ultime da parte dei batteri, ostacolando almeno in parte gli effetti benefici delle diete ad elevato apporto proteico appena descritti. D’altra parte, le diete chetogeniche, mentre riducono al minimo l’apporto glicidico, prevedono di per sé un aumento della componente lipidica. Tale aspetto ci suggerisce di analizzare in maggior dettaglio il ruolo dei diversi tipi di grassi alimentari sul microbiota intestinale e in particolare sul bilancio del rapporto Firmicutes/Bacteroides. I Bacteroides sono batteri gram-negativi in grado di realizzare sul microbiota intestinale effetti sia benefici sia avversi. i Firmicutes, invece, sono batteri Gram-positivi la cui espressione nell’intestino umano è generalmente minore, pur variando con l’età. Nella presente disamina della letteratura facciamo soprattutto riferimento al rapporto Firmicutes/Bacteroides come variabile critica, in quanto in diretta positiva correla positivamente con la presenza di obesità, associata o meno a comorbidità. 

Dalla sintesi di vari studi sull’uomo si evince che una dieta ricca in grassi determina:

  • la riduzione della produzione di SCFA e di butirrato a livello fecale (ricordiamo che il butirrato svolge un ruolo protettivo sull’intestino essendo la principale fonte di energia per le cellule del colon e, oltre ad esercitare un effetto antinfiammatorio, è in grado di migliorare la sensibilità insulinica);
  • l’aumento della produzione di LPS (un potente segnale infiammatorio);
  • l’aumento dei fattori associati al metabolismo dell’acido arachidonico (la cui liberazione porta alla secrezione di PGE e trombossani, coinvolti nei processi infiammatori);
  • l’aumento della concentrazione fecale di acido palmitico e stearico (i due principali acidi grassi saturi in grado di indurre segnali infiammatori in macrofagi, adipociti, miociti ed epatociti);
  • l’aumento della concentrazione intestinale di acidi biliari secondari, nella cui produzione sono implicati anche i batteri intestinali (caratteristico di obesità, diabete e sindrome metabolica);
  • l’aumento della permeabilità intestinale attraverso uno stimolo diretto della cascata di segnali infiammatori (citochine e interleuchine);
  • la riduzione della sensibilità al gusto del grasso (con conseguente maggiore richiesta individuale).

Nell’uomo è stato evidenziato anche che una dieta ricca in grassi riduce la sintesi di indolo 3-acetato e triptamina, due tipici prodotti di degradazione del metabolismo batterico intestinale che limitano la lipogenesi mediata dalle citochine negli epatociti e i segnali infiammatori nei macrofagi 10. Tuttavia, il fenomeno potrebbe rivelarsi transitorio per la naturale resilienza strutturale del microbiota intestinale grazie alla quale, dopo la cessazione della perturbazione indotta dall’intervento dietetico ricco in grassi (HFD), la composizione tende a riavvicinarsi a quella originale. A conferma di ciò, un’alterata composizione originaria del microbiota intestinale sarebbe in grado di garantire una significativa perdita di peso solo dopo protratta normalizzazione ottenuta grazie ad un regime dietetico specifico della durata di almeno tre mesi. Per chiarire la relazione tra i lipidi e il microbiota e, quindi, il relativo effetto sulla salute o sullo sviluppo di diverse patologie metaboliche, devono essere però attentamente valutate tipologia, quantità, durata e distribuzione relativa dei lipidi consumati.

A tale riguardo è noto che un elevato rapporto fra acidi grassi poli-insaturi (PUFA) ω-6/ω-3 si associa ad un alto rischio per la salute e ad uno stato infiammatorio cronico e che le HFD caratterizzate da diversi tipi di acidi grassi determinano effetti specifici sul microbiota:

  • acidi grassi a media catena (MCFA);
  • acidi grassi mono-insaturi (MUFA), PUFA ω-3 (EPA e DHA) – oltre a quelli a lunga catena (LCFA) se inseriti in diete con un ridotto apporto di grassi – aumentano la quota di batteri benefici produttori di SCFA e migliorano il rapporto Firmicutes/Bacteroides;
  • LCFA e PUFA ω-6 determinano invece l’effetto contrario (sia in modelli animali che sull’uomo) 11.

È stata poi osservata una relazione fra l’introito con la dieta di sfingolipidi e un basso grado di infiammazione cronica nei disordini metabolici, tanto che, utilizzando lunghe catene di sfingolipidi esogeni, si può diminuire la risposta infiammatoria sia acuta sia cronica 12.

Alla famiglia dei lipidi appartengono anche gli endocannabinoidi, mediatori lipidici derivati dai PUFA ω-6 a lunga catena. Il sistema endocannabinoide comprende numerosi mediatori originati dagli acidi grassi, fra i quali, per il loro ruolo all’interno della via di segnale implicata nel senso di fame e sazietà, hanno assunto un ruolo chiave come bersaglio per lo sviluppo di farmaci anti-obesità la N-arachidonoil-amide (AEA) e la 2-arachidonoil-glicerolo (2-AG), alte concentrazioni delle quali sono associate ad obesità, sovrappeso e diabete. Anche i loro congeneri N-aciletanolamine (NAE) and 2-monoacil-gliceroli (2‑MAG) sono implicati nell’assunzione di cibo e nel metabolismo energetico, in quanto, interagendo con recettori presenti in diversi tessuti provocano effetti molto vari, fra i quali, però, il più consolidato appare l’accumulo di grasso nel tessuto adiposo attraverso lo stimolo ad un’aumentata assunzione di cibo e l’inibizione del dispendio energetico. 

In rapporto a quanto appena descritto, va sottolineato come gli acidi grassi introdotti con la dieta influenzino le concentrazioni circolanti della maggior parte degli endocannabinoidi. Tuttavia, nonostante il noto effetto oressizzante di quest’ultimi, sono in grado di promuovere il calo ponderale in quanto collegati all’aumento dell’abbondanza di alcune famiglie batteriche responsabili di un’elevata produzione di SFCA, come le Veillonellaceae, le Christensenellaceae, le Peptostreptococcaceae e le Akkermansiaceae. Una composizione lipidica ottimale nelle VLCKD dovrebbe quindi prevedere una maggior proporzione di acidi grassi mono- e poli-insaturi, in particolare ω-3, dal momento che questi sono in grado di favorire i batteri produttori di SCFA e di garantire quindi una maggiore ricchezza e diversità batterica.

 

VLCKD e riabilitazione motoria

Un aspetto rilevante del calo ponderale è la facilitazione delle attività di recupero funzionale in presenza dei tipici danni muscolari ed articolari tipici della degenerazione artrosica associata alla sarcopenia che spesso, negli obesi, ostacola l’innalzamento del dispendio energetico richiesto per una riduzione di peso significativa e sostenuta nel tempo. La riabilitazione psico-motoria è pertanto moto utile in associazione alla terapia dietetica a qualsiasi età e dovrebbe essere intrapresa con l’aiuto di personale specializzato già in corso di VLCKD, senza timore che ne soffra l’efficienza energetica o la capacità di recupero funzionale dell’organismo.

Sicuramente anche l’attività fisica ha un ruolo fondamentale nella gestione del diabete e altre disfunzioni metaboliche e, negli stessi atleti, l’utilizzo delle VLCKD, proprio per l’elevato apporto relativo di proteine contribuisce al mantenimento della massa muscolare. Non è ancora certo, in realtà, se le diete chetogeniche influenzino la performance sportiva ma, ad oggi, un effetto negativo è rappresentato dal riscontro di una riduzione dei processi di rimodellamento osseo in atleti di endurance sottoposti a VLCKD per poco più di 3 settimane. 

In particolare, però, le proteine forniscono la maggiore fonte di azoto per la crescita batterica, che a sua volta è essenziale per l’assorbimento dei carboidrati e la produzione di SCFA. Diversamente da quanto avviene per i carboidrati, però, la fermentazione proteica da parte del microbiota intestinale determina una maggior produzione di gas e metaboliti in grado di aumentare i prodotti putrefattivi. Sarebbe dunque, un’associazione tra proteine e carboidrati a risultare benefica per la salute intestinale. In base ad un recente lavoro, poi, una dieta ricca in proteine e grassi ma povera di carboidrati determinerebbe una riduzione di Bifidobacteri, con effetti deleteri sulla salute dell’ospite, per cui un inadeguato apporto di carboidrati e fibra annullerebbe i benefici dell’esercizio fisico e di una dieta ricca in proteine in grado di aumentare la diversità microbica 13. Altri studi condotti su sportivi dimostrano infine, come fonti proteiche vegetali garantiscano effetti benefici maggiori sulla composizione del microbiota intestinale e sul metabolismo dell’ospite. La fonte e la qualità di proteine e acidi grassi, quindi, devono essere tenuti particolarmente in considerazione quando si applicano dei regimi dietetici caratterizzati da un basso apporto di carboidrati. La riduzione della quota di fibra, in favore di quella lipidica, potrebbe sembrare una condizione non ottimale, in quanto è ormai certa la sua influenza positiva sulla composizione microbica intestinale. Inoltre, la fibra solubile, in particolare, è una delle fonti primarie di SCFA, e condiziona in modo significativo la diversità batterica sesso- ed età-specifica, specialmente per quanto riguarda la quota di Clostridia e Bacteroides. Gli studi portati avanti fino ad ora si dimostrano comunque limitati: si tratta di indagini recenti, spesso ristrette a modelli animali e quindi non in grado di produrre risultati applicabili tout-court alla popolazione generale. L’elevata variabilità interindividuale, dettata anche dall’influenza dell’ambiente e dalla plasticità del microbiota intestinale rappresentano, infine, un ulteriore ostacolo per identificare delle linee guida precise 14.

 

VLCKD e insufficienza renale

Un aspetto spesso sottovalutato delle VLCKD nell’obeso anziano, tanto più se affetto anche da DMT2, è la presenza relativamente frequente di una malattia remale cronica (MRC), definita da un filtrato glomerulare compreso fra 60 e 89 ml/min/m2 (stadio G2). Da tale prospettiva, una tale dieta desta spesso sospetti in funzione di un possibile ulteriore deterioramento della funzione renale legata al sovraccarico proteico che, aumentando la pressione intraglomerulare, può indurre iperfiltrazione, danno glomerulare e proteinuria, noto fattore di rischio di progressione del danno renale. È altrettanto noto, peraltro, che, come già suggerito da uno degli autori del presente articolo, nella MRC vengono proposte le proteine di derivazione vegetale e viene sconsigliato il ricorso a quelle di origine animale, fra le quali, peraltro, si tende ad accettare il ricorso alle proteine derivanti da latte, pesce o pollame 15,16. Le VLCKD si basano soprattutto su tali tipi di fonti proteiche e non superano mai la dose giornaliera di 1,4 g/kg/peso ideale, il limite massimo proposto dalle linee guida internazionali rispetto al classico valore suggerito di 0,8 g/kg/peso ideale 17,18. In tale luce, facendo seguito alle prime segnalazioni di un effetto benefico in persone con nefropatia diabetica, un gruppo italiano ha recentemente proposto la VLCKD nei soggetti obesi con DMT2 e stadio G2 di MRC sotto supervisione attenta di personale sanitario esperto per l’efficacia non solo sul peso corporeo ma anche sul metabolismo e sulla stessa funzione renale 19. Del resto uno studio sperimentale pubblicato nel mese immediatamente successivo ha dimostrato un effetto non solo di prevenzione ma addirittura di recupero funzionale nei confronti del danno renale, probabilmente mediato da un aumento delle concentrazioni di acido 3-beta-idrossibutirrico (3-OHB) 20.

 

Conclusioni

Una modulazione efficace della composizione del microbiota intestinale, che tenda a ripristinare le sue caratteristiche tipiche di uno stato di salute, potrebbe essere una valida strategia per fornire nuovi trattamenti nutrizionali terapeutici e riabilitativi. È sicuramente necessario svolgere ulteriori indagini per comprendere chiaramente gli effetti delle VLCKDs e cercare di fornire una risposta adeguata alle seguenti domande: 

Una corretta proporzione tra specifici lipidi e proteine, associate ad una quantità di fibra solubile, anche sottoforma di prebiotici, potrebbe essere la giusta modalità di impostare un VLCKD (considerando anche le dirette interazioni tra dieta e sesso/età)? 

Si potrebbero aggiungere degli acidi grassi a catena corta (MCFAs) alle diete chetogeniche, specialmente nell’ambito del trattamento per l’obesità, per sfruttare la loro abilità di promuovere il catabolismo lipidico, dispendio energetico e miglioramento dell’ambiente e permeabilità intestinale?

Quale ruolo potrebbe svolgere la VLCKD nella riabilitazione delle persone con obesità e DMT2?

Ha veramente senso limitare l’uso della VLKCD nei soggetti obesi con DMT2 e nefropatia di grado iniziale?

Contiamo di essere presto in grado di fornire nuovi dati per rispondere ad almeno alcuni di tali quesiti, tuttora largamente disattesi.

 

 

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