Medicina di Famiglia e Specialistica
Nutrizione

Alimentazione, nutrizione e sostenibilità: quale dieta per il futuro

6 Giu 2022

da Attualità in Dietetica e Nutrizione Clinica rivista ufficiale della Fondazione ADI

Lucio Lucchin – Già Direttore UOC di Dietetica e Nutrizione, Clinica Comprensorio Sanitario di Bolzano; Past-President ADI

 

Il nesso tra alimentazione, nutrizione e ambiente, pur maggiormente percepito dall’ opinione pubblica, non risulta ancora concretizzato da efficaci comportamenti virtuosi. Ci si preoccupa per la propria salute e benessere, ma molto meno per quella della comunità in cui si vive. Il concetto di “libertà”, tende ad essere manipolato più a favore dell’immediato che del contesto. A fronte dell’aumento della conoscenza scientifica, che evidenzia come la complessità costituisca la vera sfida del secolo, l’individuo appare sempre più isolato e diffidente, sia per l’accelerazione temporale che diamo alla nostra vita, con una conseguente sensibile contrazione della capacità di riflessione, sia perché l’accesso ad un’informazione sempre più pervasiva aumenta l’insicurezza individuale, sia perché fatichiamo ad accettare, per colpa della complessità, che una ragionevole probabilità sia l’unica certezza di cui disponiamo. 

 

Una seria problematica emergente

Che le risorse del pianeta, a cominciare da quelle alimentari, possano esaurirsi a breve, non sembra destare particolare allarmismo. Sono circa 10,9 milioni gli abitanti del pianeta che annualmente perdono la vita in conseguenza di una cattiva alimentazione e molti di più quelli in cui la stessa è concausa di patologie, prevalentemente croniche 1. La sola obesità occupa il terzo posto in termini di costi alla collettività, dopo fumo di sigaretta e guerre 2. L’antropocene, cioè l’epoca in cui una sola specie è stata capace di modificare gli equilibri terrestri e che, in termini evolutivi, corrisponde a circa 60 secondi se si considera in 24 ore l’evoluzione della specie homo sapiens (circa 200.000 anni), sta producendo settimanalmente materiali vari equivalenti al peso di tutti gli individui del pianeta. In 2.000 anni, mentre la popolazione è aumentata di circa 35 volte, l’economia, cioè il PIL, è aumentato di 500 volte. Di fatto, il peso delle nostre infrastrutture ha superato quello di tutti gli alberi e arbusti del mondo 3. Con urgenza bisogna adoperarsi in termini sostenibilità, cioè di garanzia verso uno stabile equilibrio tra dimensione ambientale, economica e sociale. Solo in tal modo si può pensare ad uno sviluppo in grado di soddisfare i bisogni dell’oggi senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. In sostanza, l’interazione tra ecosistema e sistema antropico aumenta le probabilità di perturbazioni e fa aumentare il rischio di alterazioni irreversibili (comparsa di reazioni non lineari). La ricerca di un rapporto sinergico e sistemico tra le tre dimensioni, di fatto supera le tradizionali misure della ricchezza e crescita economica basata sul PIL. Sostenibilità è, dunque, un concetto dinamico, influenzato dallo scenario tecnologico che, mutando, potrebbe allentare alcuni vincoli relativi, per es. all’uso delle fonti energetiche. Che la sostenibilità sia poco perseguita si evince da dati quali: la distruzione di circa 2,9 milioni di ettari/anno di foreste, con una produzione di circa 20 miliardi di tonnellate/anno di CO2 emessa, il rilascio nel terreno di circa 6 milioni di tonnellate di sostanze tossiche/anno, di circa 10.000 tipi differenti, la desertificazione di circa 6,8 milioni di ettari/anno, l’esaurimento di circa il 60% degli stock ittici mondiali. Nel 2050 negli oceani ci sarà più plastica che pesce, specie micro-plastiche, anche provenienti dal lavaggio di indumenti contenenti fibre sintetiche. Inoltre, le acque subiranno una progressiva tropicalizzazione ed eutrofizzazione a causa dell’arricchimento in azoto e fosforo, che promuovono la crescita del fitoplancton e altri organismi acquatici, che una volta morti e depositatisi sul fondo, fungeranno da nutrimento per i microorganismi con consumo dell’ossigeno disciolto 4. Il cibo vegetale è prodotto da circa il 35% delle terre emerse, pari a circa 5,1 miliardi di ettari. Di questi, oltre 3,5 miliardi vengono destinati a pascoli e a prati per l’alimentazione animale. I rimanenti 1,6 miliardi di ettari sono destinati all’alimentazione umana e animale (circa 1/3). A conti fatti all’uomo è destinata circa il 10,4% di tutta la produzione vegetale. Quella estensiva e monocolturale ha impoverito le specie selvatiche, mediamente più ricche di molecole bioattive utili per la salute, come risposta alla difesa delle piante dal freddo, siccità, infestanti, insetti, eccetera. Lo svantaggio delle attuali produzioni vegetali è che sono meno adattabili delle precedenti ai cambiamenti climatici, alle malattie e al degrado di terreni e acqua, anche perché necessitano di fertilizzanti e pesticidi. Si stima che in cinquant’anni le varietà dei prodotti agricoli si siano ridotte di 40 volte. Inoltre, c’è stato un ridimensionamento nella presenza di specie maggiormente capaci di assorbire CO2, CO, benzene, formaldeide. L’eccessiva fertilizzazione e concimazione non permette un’adeguata assunzione di azoto, solo in parte assimilato dalle piante. Il resto rimane nel suolo dove i microrganismi presenti lo trasformano in prodotti che contaminano le falde acquifere e l’atmosfera. L’approccio di fertilizzazione biologica dei suoli legato all’uso di coltivazioni di leguminose è ancora largamente sotto utilizzato in agricoltura. Al momento, le colture di leguminose come nel caso della soia, sono per lo più convogliate verso la produzione di mangimi per gli allevamenti animali, che a loro volta costituiscono un’importantissima fonte di contaminazione ambientale. La fertilizzazione biologica andrebbe dunque associata ad una strategia globale mirata a incentivare la biodiversità delle colture di leguminose e il loro utilizzo nella dieta umana. Lo stress da eccesso di acqua delle piante, porta ad una scarsità di assunzione di ossigeno e quindi ad una scarsa fissazione dell’azoto atmosferico. L’aumento della CO2 atmosferica riduce l’apertura degli stomi vegetali per preservarne l’umidità interna, il che comporta riduzione dell’assorbimento di acqua e nutrienti con le radici (mediamente un 8%). La conclusione è che bisogna assumerne di più per garantire la copertura dei fabbisogni. È quello che sta accadendo a molti animali selvatici che tendono ad ingrassare. L’allevamento di bestiame occupa circa il 78% delle terre agricole del mondo. Carne, pesce, uova e latticini utilizzano l’83% dei terreni dedicati alla produzione di alimenti e contribuiscono per circa il 57% alle emissioni di vari inquinanti. In 1 giorno un’azienda di 1.000 animali produce i liquami di una città di 110.000 abitanti, con una forte immissione di azoto, che sterilizza i terreni, di acido solforico, fosforo e metalli pesanti, microrganismi, ormoni, insetticidi, antibiotici e additivi, metano. Dopo il riscaldamento con combustibili solidi l’allevamento degli animali è la seconda causa di emissioni di particolato PM 2,5. A causa del disboscamento e della flatulenza, gli allevamenti mondiali producono di fatto più gas serra dell’intero traffico veicolare del globo 5,6. Tra i risvolti negativi dell’antropocene, c’è anche la riduzione della biodiversità, per la progressiva limitazione nella libera circolazione di animali, pollini e semi. Alti livelli di biodiversità permettono la ricostruzione di un ecosistema nel caso in cui eventi drastici ne abbiano fatto collassare uno precedente. Il 97% delle specie esistite in 3,5 miliardi di anni si sono già estinte. Nelle specie fossili se ne sarebbe perduta una di mammiferi ogni 1.000 anni (tasso di estinzione di fondo). Oggi, la velocità è di circa 1.000 volte superiore. Gli insetti, che rappresentano circa l’85% di tutte le specie animali della Terra, si estinguono ad una velocità di decine di specie al giorno. I più, pensando a loro, manifestano sensazioni di repulsione, ma siamo sicuri che eliminare le specie fastidiose e/o dannose sia un bene? Sembra che si stia avviando la VI estinzione, che si differenzierebbe dalle precedenti per cause antropiche e per velocità, cioè le attuali scale temporali umane sarebbero difficilmente recuperabili. La coltivazione bio sembra rispettare maggiormente la biodiversità per unità di superficie coltivata, rispetto alle coltivazioni tradizionali 7-9. Gli umani rappresentano attualmente il 36% circa del peso dei mammiferi; gli animali d’allevamento il 60%. Il rischio di contatto con i selvatici e quindi di trasmissione di zoonosi è in aumento a causa della riduzione delle terre incolte. Viene spontaneo chiedersi se sia possibile il ritorno a un primitivo equilibrio con la natura e la risposta non può che essere negativa, a causa della densità demografica in crescita e perché siamo poco propensi al ridimensionamento, per non dire rinuncia, degli agi acquisiti. In sostanza, vogliamo troppo senza fare i conti con le risorse disponibili. E di tutte queste proteine animali abbiamo veramente bisogno? Con una crescita demografica mondiale di circa 80 milioni d’individui all’anno (circa 200.000 al giorno), si presume che tra una ventina di anni ci saranno sul pianeta più di 9 miliardi di persone e una quantità di animali d’allevamento ancora maggiore. La domanda da porsi è: “avremo abbastanza risorse per tutti?”. 

 

Tra pochi anni avremo risorse alimentari per tutti?

E soprattutto: “saremo in grado di nutrirci adeguatamente?”. Se a queste domande tentiamo di dare una risposta in funzione della sostenibilità della nostra alimentazione, alcuni recenti studi indicano che già oggi non potremo nutrire più di 3,4 miliardi di persone con un apporto di circa 2.355 kg calorie al giorno. Cioè circa metà dell’attuale popolazione mondiale 10. In quest’ultima emergono due grandi ambiti di malnutrizione: quello per difetto, calorico-proteico, pari a circa 850 milioni, non solo appannaggio dei paesi più poveri e quello per eccesso con circa 1,7 miliardi di persone in sovrappeso, di cui circa 600 milioni obese. La biodiversità è strategica per la nutrizione umana. Si stima che gli antenati cacciatori raccoglitori assumessero circa 200-250 diverse piante a rotazione (foraging). Per altro, per ottimizzare il nostro microbiota, probabilmente bisognerebbe consumare dai 15 ai 30 alimenti diversi ogni settimana. Oggi, nove specie vegetali rappresentano circa il 66% della produzione agricola totale. Si utilizzano abitualmente circa 30 colture sulle oltre 30.000 commestibili delle 230.000 specie vegetali. L’importanza della diversificazione alimentare scaturisce dal fatto che ad es. l’effetto di una molecola antiossidante isolata dal cibo, spesso è meno efficace che se assunta all’interno dell’alimento. Ovviamente, non tutte le biomolecole presenti svolgono azioni positive nel corpo, ma i rapporti stechiometrici tra le stesse, tendono a portare ad un risultato complessivo favorevole. Con un pasto tradizionale assumiamo circa 25.000 costituenti bioattivi 11. La complessità che traspare da questa considerazione, contrasta con l’eccessiva semplificazione a cui si ricorre quando ad es. si parla di naturale o sano. Ma proviamo a definire l’aggettivo sano! In natura non esistono cibi assolutamente “sani”, nel senso che fanno solo bene al corpo a prescindere dalla quantità ingerita. Un cibo “sano” non ci assolve dai peccati di gola. E cosa intendiamo per alimento di qualità? Anche in questa circostanza non si può considerare separatamente le componenti che determinano la qualità e che in termini di rilevanza sono: la composizione bromatologica più dettagliata possibile, il rischio igienico di tossinfezioni, il livello di sostenibilità nella produzione, la valenza etico-culturale. A quest’ultimo riguardo si pensi che in un processo d’integrazione le abitudini alimentari sono le ultime a sparire dopo lingua e abbigliamento. 

 

Tornare al razionamento?

La preoccupazione che gli eserciti avessero sufficiente nutrimento per potere risultare efficaci, è una costante dell’evoluzione umana. La tecnica del razionamento è diventata pertanto sempre più raffinata, fino alla identificazione di specifici fabbisogni (es. la razione K). Con il prolungarsi del secondo conflitto mondiale Ancel Keys si pose la domanda di quale potesse essere il razionamento minimo per la popolazione, considerato che le risorse alimentari iniziavano a scarseggiare, senza pagare troppe conseguenze cliniche. Con il Minnesota Study ipotizzò che potesse aggirarsi attorno alle 1.600 kcal/die. Oggi stiamo combattendo una battaglia pandemica, che sta portando una fetta consistente di popolazione verso uno stato di povertà. Nel 2020 non meno di 3,7 milioni di italiani hanno avuto bisogno di supporto per mangiare. Molte nobili organizzazioni si stanno adoperando per arginare questa piaga, ma chiediamoci se le persone che vengono assistite vengono alimentate o nutrite? Con l’aumento demografico bisognerà inevitabilmente pensare quanto meno in termini di non spreco, se non di vero e proprio razionamento, ma questo dipende dai nostri comportamenti. Le domande si susseguono: “se le ricerche indicano che mangiare meno fa stare meglio e vivere più a lungo, perché la gente tende a mangiare sempre di più?” Perché il business è in crescita; ogni anno vengono immessi sul mercato circa 17.000 nuovi prodotti e il 75% di ciò che ci ritroviamo nel piatto è gestito da una decina di multinazionali. I nuovi prodotti sono molto attenti al bliss point e quindi alla possibilità di creare “dipendenza” e vengono proposti con un marketing sempre più aggressivo che colpisce l’inconscio del consumatore. Inoltre, continuando ad offrire nuove proposte si solletica l’atavico retaggio evolutivo dell’onnivoro, di assaggiare anche a stomaco pieno per scoprire nuove fonti di possibile nutrimento. L’industria non va demonizzata, perché non possiamo più permetterci di farne a meno, ma andrebbe ”educata” verso produzioni realmente utili.

“Per la salute sono necessarie tutte le proteine animali che si allevano?” La risposta è negativa sotto il profilo nutrizionale. Certo è che la produzione ha raggiunto un livello tale da renderne il prezzo più abbordabile rispetto ad altre categorie di alimenti. Al fine della salute i dati della ricerca sembrano indirizzare verso un apporto proteico relativamente basso fino ai 65 anni d’età, per poi innalzarlo a 1,2-1,3 g/kg/die 12. “Esiste un’alimentazione da consigliare a tutti?”.

 

Esiste un’alimentazione da consigliare a tutti?

La maggior quantità di dati disponibili in termini di mortalità e morbilità, concordano sulla dieta mediterranea e pesco-vegetariana 13. Nel primo caso, oltre alle caratteristiche intrinseche: sobrietà in primis, uso prevalente di cereali integrali, olio di oliva e vino, bisogna considerare gli effetti sulla salute dello stile comportamentale che l’ha caratterizzata: convivialità, stagionalità dei cibi, rispetto del ciclo sonno-veglia, mitezza del clima. L’approfondimento delle conoscenze sul microbiota rendono la ricerca della dieta universale meno concretizzabile per il singolo, che necessiterà sempre più di una personalizzazione 14. Le associazioni scientifiche continuano a produrre linee guida sull’alimentazione con scarsa considerazione per la sostenibilità 15. A questo punto “qual è la dieta capace di conciliare sostenibilità e benessere?” Secondo l’EAT-Lancet Commission 2019 è una razione di circa 2.370 kcal/die, considerando una persona di 30 anni di età e di 70 kg di peso se uomo e 60 kg di peso se donna. Dovrebbe prevedere quotidianamente circa 232 g di cereali integrali, 50 g di tuberi, 300 g di altri vegetali, 200 g di frutta, 250 g di latticini, 14 g di carne bovina-suina, 29 g di carne avicola, 13 g di uova, 28 g di pesce,75 g di legumi, 50 g di frutta secca, 40 g di oli insaturi e 12 di saturi, 30 g di zucchero. Con un tale regime si dovrebbero prevenire, nel mondo, circa 11 milioni di morti. Il messaggio che emerge è che bisogna rivisitare i nostri comportamenti con cognizione. Per produrre 1 kg di carne c’è bisogno di 10 kg di mangime e più di 20.000 l di acqua se bovina, di 5 kg di mangime se suina, di 2,5 kg se avicola e di 1,7 kg se da insetti con 1.000 volte meno la necessità di acqua. Per rallentare la corsa a fonti alternative di cibo risulta fondamentale il controllo degli scarti domestici. Una famiglia italiana getta mediamente 400 g di cibo alla settimana. Considerato che in Italia ci sono circa 26 milioni di famiglie, lo spreco settimanale nazionale ammonta a più di 10.000 tonnellate 16.

 

Quali cibi del futuro?

Contemporaneamente alle azioni indirizzate al recupero di risorse: mangiare meno e meglio e contrastare gli sprechi, è bene studiare e sperimentare nuove fonti di sostentamento, come le colture aeroponiche (radici non sotterrate e nebulizzate con soluzioni acquose nutrienti) e idroponiche (radici immerse in soluzioni acquose nutrienti, in condizioni ottimali d’illuminazione, temperatura, umidità e ventilazione). Utile anche la riscoperta di fonti vegetali poco utilizzate nell’alimentazione occidentale come le alghe (ricche di antiossidanti, iodio, ferro, calcio, fosforo, proteine, vitamine). La Wolffia Globosa, coltivata in Israele e in altri Paesi del Sud-Est asiatico, è ricca di aminoacidi, polifenoli e flavonoidi, fibre, minerali (specie ferro e zinco), vitamine (A, gruppo B). Ha un buon effetto saziante e sul controllo glicometabolico. Anche le meduse si stanno affacciando all’alimentazione umana occidentale in quanto buone fonti proteiche, di magnesio e potassio. Sono povere di calorie e grassi e possiedono un buon potere antiossidante e antiinfiammatorio. Probabilmente anche i fiori andranno riscoperti, considerato che esistono ben 50 specie edule. Alcuni li mangiamo già senza saperlo, come il carciofo, la zucca, i cavolfiori, lo zafferano. Sono poveri in grassi e ricchi in minerali, vitamine, antiossidanti. Chi non riesce a limitare il consumo della carne potrà ricorrere in futuro a forme artificiali provenienti da cellule staminali embrionali di bovini, suini o polli. Ci sono ancora criticità tecniche legate allo sviluppo delle linee cellulari, dei mezzi nutritivi più idonei, dei materiali da impalcatura e alle piattaforme per i bioreattori. In alternativa si può ricorrere a carni vegetali, come per es hamburger o polpette i cui ingredienti sono proteine di pisello o di altri legumi, alghe marine, succo di barbabietola e vari aromi. Si possono anche produrre carni vegetali con seitan, estraendo il glutine dalla farina di frumento, poi impastandolo e lessandolo in acqua insaporita con salsa di soia, alga kombu e altri aromi, oppure con mopur che si ottiene da un naturale processo di fermentazione del frumento, che sfrutta l’azione di un lievito madre naturale, a cui sono aggiunti farina di ceci o altri legumi, olio di oliva, di cocco, salsa di soia, patata, cipolla, pepe in polvere, aglio in polvere, sale, acqua. In tal modo si ottiene una struttura microfibrillare simile alla carne. Questa “carne” viene prodotta con stampanti 3D. Sull’utilizzo degli insetti a scopo alimentare, le resistenze sono elevate, per lo meno in occidente. A prescindere dalla necessità di normative chiare, sotto l’aspetto nutrizionale i vantaggi sembrano consistenti. Delle 2.000 specie commestibili, 20-25 sono presenti in Italia come cavallette, maggiolini, bruchi della farina, scarabei, coccinelle. Una possibile spiegazione all’avversione sembra dovuta alla necessità antropologica di allontanarci il più possibile dalla nostra origine animale. Se l’impiego con la forma riconoscibile può risultare fastidioso, l’utilizzo di farine o derivati potrebbe esserlo meno. In conclusione, la modifica delle nostre abitudini alimentari è un imperativo non più rinviabile e con ricadute più positive che negative sul benessere del singolo e della comunità. 

 

 

Bibliografia

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