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Pediatria

La trasmissione intergenerazionale della violenza di genere

8 Lug 2021

Tratto da: Il medico pediatra, FIMP

L’ONU e l’Unione Europea definiscono violenza di genere una violenza “che si annida nello squilibrio relazionale tra i sessi e nel desiderio di controllo e di possesso da parte del genere maschile sul femminile” e che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), “trova le sue radici nella disparità tra i generi e nella discriminazione di genere”.

Per l’OMS, inoltre, la violenza contro le donne costituisce un problema di salute pubblica globale di proporzioni epidemiche e rappresenta uno dei principali fattori di rischio di cattiva salute e di morte prematura per donne e ragazze.

Ma, se è vero che l’impatto della violenza sulla salute delle donne che la subiscono è nella maggioranza dei casi grave e a volte devastante, è altrettanto vero che la violenza domestica o di coppia colpisce drasticamente anche i bambini che vi assistono o la subiscono in prima persona: quasi i due terzi dei mariti violenti, infatti, sono anche dei padri violenti.

Numerosi studi hanno ormai dimostrato che vivere in un contesto familiare maltrattante nei confronti della donna espone il bambino, oltre che ad aumentato rischio di multiple esperienze sfavorevoli infantili (ESI o ACEs) e di varie morbidità a dlungo termine, anche a un maggior rischio di trasmissione intergenerazionale della violenza, sia nel senso di una perpetrazione della stessa sotto forma di maltrattamento sui minori (child abuse and neglect) che come violenza nelle relazioni adolescenziali (dating violence).

Motivo per cui la Convenzione di Istanbul, nata in seno al Consiglio d’Europa nel 2011 e ratificata in Italia nel 2013, non solo ha riconosciuto la violenza contro le donne una forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione, ma rappresenta il primo strumento giuridicamente vincolante sulla prevenzione sia della violenza di genere che della violenza domestica, prevedendo anche la protezione dei bambini testimoni di violenza intrafamiliare, vittime cioè di violenza assistita.

Violenza di genere: la situazione in Italia

Secondo un’indagine condotta dall’ISTAT e dal Ministero delle Pari Opportunità nel 2014, in Italia quasi 7 milioni di donne hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita, quindi una donna su tre ne è stata vittima, mentre ogni tre giorni una donna viene uccisa per mano del marito, del convivente o dell’ex-partner: dunque, la violenza di genere e intra‑ familiare è molto più diffusa di quanto comunemente si pensi.

Una analisi ISTAT condotta su 282 centri antiviolenza in Italia rivela che, nel solo 2017, 1,5 donne su 1000 si sono rivolte ai CAV e il 67,2% di loro ha iniziato un percorso di uscita dalla violenza: tra queste il 63,7% ha figli, minorenni nei 2/3 dei casi.

Sempre secondo dati ISTAT, inoltre, la percentuale relativa alla violenza di genere assistita in Italia è passata dal 60% nel 2006 al 65% nel 2015: un dato allarmante se si considera, come denunciato da Save the Children, che nel 50% dei casi di violenza domestica i bambini hanno assistito direttamente ai maltrattamenti, mentre in 1 caso su 10 sono stati essi stessi vittime di un abuso diretto soprattutto per mano del padre.

Tra le conseguenze della violenza assistita sullo sviluppo psicofisico e sociale del bambino vi è, dunque, anche il rischio della trasmissione intergenerazionale della violenza, che può essere attivata sia perché si è assistito alla violenza sia perché si è stati vittima della stessa.

La trasmissione intergenerazionale della violenza di genere

I bambini che assistono a relazioni interpersonali violente tra figure adulte di riferimento, in primis i genitori, hanno un elevato rischio di diventare in futuro adolescenti o adulti con gravi problemi relazionali, partner violenti o genitori a loro volta abusanti.

Non solo assistere alla violenza interpersonale tra adulti, ma anche subire qualsiasi tipo di maltrattamento (fisico, sessuale, psicologico/emozionale, neglect), da parte di un adulto in posizione di fiducia o di autorità nei confronti di un bambino, comporta per quest’ultimo un maggiore rischio di sperimentare successivamente ancora violenza o di perpetrare a sua volta violenza tra partner e violenza sessuale contro le donne.

Infatti, l’esposizione alla violenza nella famiglia di origine durante l’infanzia è stata correlata sia alla vittimizzazione secondaria che alla dating violence, vale a dire alla perpetrazione di comportamenti aggressivi di natura fisica, verbale, sessuale, psicologica, da parte sia di adolescenti maschi che femmine, all’interno di relazioni sentimentali adolescenziali.

La “social learning theory”  è comunemente applicata per spiegare il ciclo intergenerazionale della violenza, suggerendo che i bambini imitano tipicamente i comportamenti aggressivi del modello di riferimento del genitore del loro stesso genere.

Sebbene non sia ancora chiaro come il genere del bambino e dell’adulto perpetratore della violenza nei suoi confronti siano correlati al tipo di violenza relazionale dell’adolescente, in linea di massima sembrerebbe che i maschi imparino ad agire la violenza, le femmine a tollerarla. Secondo alcuni Autori, però, esistono differenze di genere più specifiche: assistere alla violenza perpetrata dal padre è associata a una più alta perpetrazione per i maschi e a una più alta vittimizzazione/perpetrazione combinata per le femmine.

Invece, assistere alla violenza perpetrata dalla madre, sia che sia la sola a perpetrarla o che ciò avvenga nell’ambito di una relazione violenta con un adulto maschio, aumenta il rischio di una vittimizzazione/perpetrazione sia per i maschi che per le femmine durante l’adolescenza.

Conclusioni

La trasmissione intergenerazionale della violenza di genere è un fenomeno per certi aspetti ancora poco conosciuto e pertanto sottovalutato riguardo alle sue conseguenze sulla salute del bambino e del futuro adulto e questo contribuisce a far sì che la violenza contro i bambini continui a rimanere spesso invisibile e che ci siano ancora bambini e adolescenti che, sperimentando un abuso, non hanno accesso ai programmi e ai servizi a essi necessari.

Occorrerebbero interventi di prevenzione basati sul genere, mirati ad esempio ad aumentare l’autostima delle ragazze per limitarne la vittimizzazione, o a ridurre l’aggressività dei ragazzi per limitare la perpetrazione della violenza nelle relazioni adolescenziali e adulte.

La Convenzione di Istanbul riconosce alla Scuola l’importante ruolo di promuovere un reale cambiamento culturale e sociale per la prevenzione della violenza di genere, attraverso programmi di educazione al rispetto delle differenze, al superamento degli stereotipi nei confronti della figura femminile e all’affettività nelle relazioni tra pari o di coppia: bambini e adolescenti, infatti, apprendono e interiorizzano il valore aggiunto costituito dalle “differenze” proprio nell’età scolare.

Il Pediatra, d’altra parte, specie se adeguatamente formato, oltre a fungere da sentinella della violenza domestica, cogliendo situazioni di rischio individuale, familiare o sociale e limitando le conseguenze del trauma, può svolgere un ruolo altrettanto importante anche nella prevenzione primaria della trasmissione intergenerazionale della violenza di genere, ad esempio attraverso l’educazione delle giovani generazioni alla genitorialità positiva e all’affettività nelle relazioni, in collaborazione con la stessa istituzione scolastica.

Approfondisci l’argomento sulla rivista il medico pediatra

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