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Alimentazione

Effetti metabolici postprandiali del consumo di pasta

5 Ago 2021

Tratto da AP&B – Alimentazione, Prevenzione e Benessere

Il ruolo nutrizionale e di salute dei carboidrati della dieta è da anni oggetto di un’attiva ricerca, che ha permesso di distinguere questi nutrienti non soltanto in semplici e complessi, ma anche in base all’impatto che esercitano sul metabolismo a diversi livelli e, come oggi sappiamo, sul microbiota intestinale. Gli studi più recenti si sono focalizzati poi sugli effetti associati a specifiche caratteristiche delle principali fonti alimentari di carboidrati. Nel caso della pasta, alimento cardine della dieta mediterranea tradizionale, informazioni sono già disponibili per quanto riguarda i possibili effetti metabolici delle diverse tipologie della materia prima, del grado di cottura, della modalità di consumo (con o senza condimento). Il ruolo del processo produttivo è invece al centro dello studio di intervento coordinato da Anna Solini, del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa, come precisa Alessandro Mengozzi che, del lavoro pubblicato su Nutrients, è il primo autore.

D: Quali sono state le premesse e gli obiettivi dello studio?

L’idea nasce da una serie di considerazioni condivise nel nostro gruppo di ricerca. Siamo infatti fortemente convinti che la prevenzione del danno metabolico sia fondamentale per contrastare il continuo incremento che si osserva, a livello mondiale, della prevalenza dei vari fenotipi patologici del metabolismo del glucosio. Queste condizioni che, impropriamente, spesso non vengono considerate veri e propri stati di malattia, sono caratterizzate da un diffuso danno subclinico, pertanto inapparente, che esita però in un alto rischio cardiovascolare.
Le malattie cardiovascolari sono d’altro canto il principale motivo di sovraccarico dei sistemi sanitari ai giorni nostri: va da sé che ridurre la frequenza delle condizioni di alterato metabolismo glucidico che ne rappresentano i precursori è di primaria importanza.
Siamo altrettanto convinti che la prevenzione debba essere basata sull’eliminazione delle “cattive abitudini” e sulla promozione invece delle “buone” e che questo vada fatto quanto più precocemente possibile. Infine, siamo consapevoli che, per mettere in atto questi cambiamenti virtuosi, sia necessario avere delle certezze su cui ragionare, lasciando alle spalle pregiudizi e convinzioni popolari che spesso non si fondano su alcuna base scientifica. Per quanto concerne gli alimenti, l’importanza attribuita al loro ruolo è crescente non solo in termini di materie prime utilizzate per la produzione, ma anche delle modalità in cui vengono consumati e preparati. La preparazione è infatti un passaggio fondamentale per determinare tanto l’appetibilità di un prodotto quanto i suoi potenziali effetti metabolici. Eppure, per quanto riguarda la pasta, un cibo che appartiene alla nostra quotidianità, la letteratura non è in grado di dirci se una processazione più lenta, e pertanto più costosa, possa tradursi anche in effetti favorevoli sul nostro organismo. Il nostro studio nasce proprio con questo intento: verificare l’impatto sul metabolismo della versione artigianale di uno degli alimenti più diffusi sulle nostre tavole.

D: La vostra attenzione si è quindi focalizzata sul processo produttivo; quali sono le principali differenze tra i due tipi di pasta che avete esaminato?

I due prodotti che sono stati utilizzati per lo studio si differenziavano solamente per alcuni aspetti del ciclo produttivo: per un tipo di pasta si trattava di una processazione standard (simile a quella industriale), per l’altra di una processazione lenta (che viene definita artigianale). Quest’ultima è caratterizzata dalle fasi di estrusione ed essiccazione condotte a temperature sensibilmente più basse e da un’essiccazione prolungata per uno o due giorni anziché qualche ora; inoltre, la pasta artigianale è sottoposta a una trafilatura in bronzo anziché in teflon. Nel complesso, la pasta artigianale è risultata essere più porosa e con un carattere più definito rispetto all’altra. Va però sottolineato che i due prodotti erano identici in termini di composizione in macronutrienti: questo ci ha permesso di osservare il solo ruolo del processo di lavorazione della pasta sul metabolismo glucidico postprandiale.

Quali sono i più rilevanti tra i risultati che avete ottenuto?

In una piccola popolazione di soggetti giovani, tutti maschi (per evitare un eventuale effetto di confondimento legato al sesso dell’individuo) di circa 30 anni e soprattutto sani, i due tipi di pasta sono risultati sostanzialmente sovrapponibili per quanto riguarda il profilo della tolleranza glucidica e del profilo incretinico post-prandiale. L’unica differenza che abbiamo riscontrato, modesta e non significativa dal punto di vista statistico, è stata una risposta insulinica lievemente ritardata con la pasta a processazione lenta rispetto alla pasta a processazione standard. Dal punto di vista sostanziale, in un contesto acuto (il singolo pasto) le due paste hanno provocato lo stesso tipo di risposta metabolica.

D: Secondo queste osservazioni non sembrano esistere differenze significative tra le paste prodotte con tecniche industriali o artigianali in termini di risposta glicemica ed insulinemica in soggetti sani. In che misura era prevedibile il risultato in base alle evidenze disponibili?

Date le poche conoscenze ricavabili dall’attuale letteratura in merito, non era ben chiaro quale potesse essere il potenziale effetto di una diversa processazione della pasta sull’omeostasi glucidica. Avendo scelto di condurre lo studio su una popolazione giovane e sana, sapevamo che, se presente, la differenza sarebbe stata modesta. I risultati sono stati negativi, ma non per questo ci hanno deluso: è importante conoscere in dettaglio gli effetti di uno degli alimenti più presenti nella nostra quotidianità sul nostro metabolismo. Anzi, sapere che consumando un prodotto più economico non si rischia di “pagare un prezzo” in termini di salute metabolica può essere tranquillizzante.

D: Le preferenze dei volontari arruolati nel vostro studio hanno invece premiato, sul piano del gusto, la pasta artigianale. Che cosa può dirci al proposito?

Questo risultato era in effetti atteso: da un lato conferma il ruolo della qualità organolettica del prodotto, sottolineando come il processo di lavorazione lo renda soggettivamente preferibile ad un suo equivalente di origine industriale; dall’altro sposta l’attenzione verso la sfera del gusto. Sfera che, va detto, nel nostro lavoro non abbiamo studiato nel dettaglio, ma che è un’altra componente essenziale del benessere dell’individuo e che potrebbe contribuire, su un periodo più lungo di osservazione o in una popolazione differente, a effetti indiretti anche sull’omeostasi glucidica.

D.: I risultati che avete ottenuto sono potenzialmente rilevanti solamente per i pazienti con anomalie del metabolismo glicidico, o possono esserlo per l’intera popolazione?

Nonostante la piccola dimensione campionaria oggetto dell’analisi, i nostri risultati sono probabilmente rilevanti per una popolazione di soggetti sani. Infatti, proprio questi soggetti sono (o dovrebbero essere) i primi destinatari di campagne di prevenzione e quindi di sensibilizzazione agli effetti che le abitudini soggettive hanno sull’organismo e, nello specifico, sul metabolismo di ognuno.
Le vie metaboliche infatti subiscono un deterioramento progressivo ad opera di un’ampia gamma di stimoli ambientali, compresa l’alimentazione, che agiscono in modo anche subdolo: generalmente si tende a sottovalutarne il potenziale effetto negativo finché il danno non è irreversibile.
A quel punto la prevenzione è meno efficace: rimane fondamentale, ma mentre all’inizio del processo permette di eludere il danno (si parla infatti di prevenzione primaria, se non addirittura primordiale) in quella fase potrà solamente rallentarne la progressione.

D: Le implicazioni di carattere pratico rendono quindi questo filone di ricerca particolarmente promettente. Avete in programma di continuare a lavorare in questa direzione?

Ci auguriamo di poterlo fare. Il prossimo obiettivo sarebbe di condurre lo studio in pazienti con un diverso fenotipo di tolleranza glucidica: ad esempio pazienti con ridotta tolleranza ai carboidrati, alterata glicemia a digiuno, o con diabete conclamato. L’ipotesi di lavoro è di verificare quanto quell’accenno di ritardo nella curva insulinica possa determinare, ad esempio, un’escursione glicemica, massimale e totale, differente dopo assunzione dei diversi tipi di pasta in diverse tipologie di pazienti. Il fine ultimo è rilevare inoltre gli eventuali effetti a lungo termine del consumo di diversi tipi di pasta: in questo contesto, la componente del gusto e quindi la sfera emotiva potrebbero giocare un ruolo fondamentale, agendo su vie nervose in grado di indurre effetti indiretti e potenzialmente sottovalutati sul benessere della persona.

Approfondisci l’argomento sulla rivista di AP&B

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